Morucchio, 1969
Saggi critici
   
Nel 1947 vidi il primo dipinto di Albino Lucatello: lo teneva "fresco" tra le mani, mentre di lui parlava, presentandomelo, una contessa esuberante nel suo impasto populista.
Le qualità che notai in quell’immagine della piscina Passoni, tema frustro, rimbambito da tanti tentativi succubi, in vari modi, del magnetismo naturalistico, mi presentarono un giovane che pensava il colore e la forma a modo suo.
Tutte le vibrazioni del luogo erano presenti eppur celate; l’inerzia della gabbia prospettica era rotta dalla presenza marcata di linee azzurre provocantemente autonome, che, mentre concludevano con decisione l’essenzialità dell’immagine, rimandavano ad altri intendimenti.
In nuce, era presentato il primo problema che Lucatello si pose e del quale diede molte soluzioni e che durò fino al 1956, coi suoi "Tetti a Venezia" ospitati alla XXVIII Biennale veneziana.
Per naturale immersione nel nostro ambiente storico–naturale lagunare, la sua inclinazione a vedere attraverso il colore–luce lo portava a cogliere della realtà, da cui iniziava la sua esperienza, i valori da essa affiorati, che oscuravano altre indagini, ritardavano altre percezioni.
Ma, nell’istante di questa scelta, scattava, come atto critico, la volontà di rompere quest’estasi di un momento, seppur incantato, felice, ma incompleto e ritardato se misurato al sentimento della storia, mai come allora così presente nella sua contradditoria complessità, che si destava in lui proiettandosi nella sua visione plastica.
Da qui si spiega il suo uso dell’accentuazione segnica che poneva vicino al sentire, ancora lirico e abbandonato, il pensare. In quei dipinti c’è un rincorrersi tra immediatezza e mediazione, c’è scontro, abbandono e ripresa; c’è il disgusto per le sue qualità iniziali, le premesse del prossimo veder cupo.
Ch’egli potesse acconsentire all’elaborata definizione neorealista si spiega se la si interpreta come una formulazione estetica in cui fine generale era di concepire l’atto artistico come un atto completo in sé e ricco di relazioni.
Ma l’aver accantonato la visione dinamica di tale atto, sottraendogli poco a poco la conquistata autonomia linguistica, che sempre si caratterizzava nella ricerca, dissociando l’istanza sociale dalla scienza, impoverì quanto di legittimo si trovava all’inizio di tale movimento d’arte, con la sua proiezione dell’etica individuale in quella collettiva, immiserendo altresì lo spirito che deve animare la difficile operazione didascalica per mezzo dell’arte. Ma in questa fase Lucatello sfoggiò un torrente d’energia nel dovere che sentiva di denunciare la chiusa condizione proletaria.
Dall’artista veniva rappresentata in un’immagine di lavoratore degradato, un bracciante scaricatore. Non erano gli atteggiamenti colti dalla vita (continuava a scegliere un repertorio noto, che ha le sue radici nell’Ottocento), ma il tumulto antigrazioso, la gravità della materia che intendevano esprimere uno stato di dura coseità, nel quale è circoscritta e pensata da che la governa tale classe.
Una coseità angosciosa perché scoperta nell’essere umano, che restringeva il suo svagato orizzonte. Comunicavano dispetto, attenzione, ira i segni velocissimi che bucavano di nero compatto faccie e corpi più che il contenuto dell’immagine. Il quale, a poco a poco, pur presente, rimaneva come estraneo all’evento della nascita di urna nuova consapevolezza dentro l’accettata poetica neorealista. Nasceva il materialismo plastico di Lucatello così affine ad altre poetiche incalzanti, ma da esse distinto e forse opposto. Il riferimento oggettivo dell’immagine o rimaneva presente come un gesto convenzionale, vieppiù dissociato dal luogo del conflitto del suo rinnovato sentire, ch’era il formarsi stesso dell’immagine, o veniva spesso risucchiato dalla violenza della nuova struttura nascente.
Cosa significavano queste alte paste bituminose, delineanti una lingua di terra nel mare in controluce, schiaffeggiata all’orizzonte da un cielo impietoso bianco e giallo tiratissimi nella loro uniformità?
Un paesaggio, siamo nel 1957, 1958, che patisce a volte l'intervento dell’astrazione, ma solo per affondare ancor più in quell’ovvio a un primordio organico. Lucatello, mantenendo il legame con la realtà tramite la certezza elementare che i sensi infondono, prepara, con una convinzione conquistata grado a grado, il suo stato d’animo di ricezione della materia. Ancora essa è uno strumento amato, duttile, ma è serva che ricopre un ruolo.
È indagata nel suo uso immediato, non è, come si dice, trasfigurata. Anzi se c’è un limite in questo periodo, esso appare nel suo dosaggio quantitativo che viene intuitivamente calcolato in rapporto all’oggetto percepito. Questo equilibrio tra soggetto, natura e medium non è per nulla voluto da Lucatello, mentre le prevaricazioni del medium sugli altri due fattori, certi stridori tra essi, durante la relazione necessitata dalla sintesi espressiva, sono cercati intenzionalmente dall'artista, in uno stato latente di consapevolezza. Sarà questa rottura che lo farà procedere.
Quando la materia s’alzerà come onda immensa, racchiudendo essenza, gesto, dimensione, allora Lucatello avrà capovolto il rapporto precedente.
Ma dovrà prima bruciare altri ardori, gareggiare con l’avidità rimbaudiana e courbetiana per la natura (…"Mangeons l’air, – Le roc, les charbons, le fer,… – Mangez – Les cailloux qu’un pauvre brise, – Les vieilles pierres d’églises, – Les galets, fils des déluges, – Pains couchés aux vallées grises! – Mes faims, c’est les bouts d’air noir; – L’azur sonneur; – C’est I’éstomac qui me tire…). Ritorna quella gioia di fanciullo le cui percezioni sono acutissime, mescolata alla disinvoltura possessiva dell’adulto.
Di fronte ai dipinti del 1962 non sai se Lucatello intoni il grido della sfida o l’inno dell'esaltazione. Un’estasi vorticosa batte in quelle terre di Tarcento, dove ora vive, e ch'egli interroga con umido abbandono.. E' la dolcezza dell’addio ch’egli darà tra poco alla misura mimetica? Perché dopo il periodo scuro c’è quello liberatorio nato dal nuovo ambiente, dove ogni gamma di verde è amata, dove i segni fitti e gli spazi larghi coesistono e s’identificano in boschi e spianate, relazionati con una sapienza che da sola definisce la mano di un maestro.
Ma ecco ritornare il problema che vuole sia la materia stessa emozione e organicità. Tutto cade, fuori di ciò, nell’illusione scenografica, tutto rotola nello spezzettamento del particolare. Sì, vengono senza dubbio alla mente i monocromi di Fontana e di Yves Klein, ma l’esser ancora natura, e sentirla più completa, è il carattere proprio dei monocromi di LucateIlo. Ora la materia non appoggia l’inganno naturalistico, ma è essa stessa natura. Se Lucatello non fosse provvisto di una forza concreta dell’immaginazione si potrebbe temere che ci indicasse un’astrazione senza uscita, si contraddicesse invitandoci in un eliso delle essenze, ancora prigioniero di un’altra poetica dei valori. Ma il suo rigore teorico è congiunto con l’animazione sensibile, e coi monocromi esprime tutta la forza, gli stati d’animo che la materia contiene, cui l’uomo darà, di volta in volta, un nome animando, pur in modo arbitrario, un’indifferenza che sembra contraddirsi, ma che è solo la vita di un elemento nel suo misterioso svolgersi.
 

MORUCCHIO Berto, Albino Lucatello, Venezia, ed. Galleria d’Arte Venezia, monografia edita in occasione della mostra personale Lucatello, Venezia, Galleria d’Arte Venezia, marzo

 

 


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