Albino lavevo
conosciuto qualche anno prima che venisse in Friuli. Mi avevano
mandato a Venezia per organizzare la partecipazione dei veneti a
una mostra che si teneva a Gradisca tra il 51 e il 54.
Sulla porta del caffè Ai artisti, in Campo S.
Barnaba, cera un tipo biondo, vestito di bianco. Sorrideva
dietro una nuvola di fumo azzurrino. Albino era un pittore affermato,
viveva in una città come Venezia e vendeva quadri in America.
Ma offrì al ragazzo sconosciuto ed impacciato una accoglienza
insieme gentile e grandiosa: sigarette estere e bevande colorate,
strane, mai viste.
Vedova, Santomaso e Pizzinato alla Salute, Sergi sul Rio Nuovo,
Renzini alla Fondamenta Malcanton, Borsato, Barbaro e Schulz a palazzo
Carminati, Pontini in Terà, Morandis, Bacci e Gaspari alla
Taverna Fenice, giocavano a scopone con Guidi che non sapeva sparigliare.
Da uno studio allaltro raccoglievamo quadri per quella mostra
in provincia. Bepi Longo aveva il volto devastato da. una crudele
malattia. Non impressionarti dice Albino. Anche
per lui, poverino che non si accorga.
Ci incontrammo dieci anni più tardi in Friuli. Il neorealismo
era finito e non dipingevamo più brutti quadri, non quelli,
almeno. Non si parlava più di Contenuti, bensì di
Operazioni. Ma Albino andava in giro con quel suo motorino tra Buia
e Tarcento, si fermava sotto lalbero dellosteria, parlava
con la vecchietta. E intanto guardava il fiume, i ciottoli bianchi,
lazzurro, la collina, il verde, la montagna, il sole. Ne traeva
i simboli della forza, dellallegria e delle invalicabili barriere.
Si parlava poco del nostro lavoro e molto di altre cose, si scherzava,
io litigavo con Giselda. Cosa cera da parlare? Se in un quadro
vedi già qualcuno che hai incontrato per le strade sul fare
della sera, quando è cattivo tempo, o lalbero che tendeva
i suoi rami mentre passavi col treno o una collina dormiente (i
soliti luoghi comuni), allora cosa cè da parlare?
Quattro o cinque amici molto diversi nel vivere e nel dipingere
ma vicini nel modo di considerare questo mestiere. Eravamo rimasti
indietro, insomma.
Per me Albino era, soprattutto, uno che veniva da Venezia e che
da quella città portava, assieme a unaria da gran signore,
le certezze di chi è nato allombra dei Frari. Qualche
volta, davanti a un quadro che intendevo cancellare, bastava che
Albino dicesse tranquillamente sei matto.
Ti xe mato me lo diceva anche per un altro motivo, la
mia idea ricorrente di organizzare gli artisti. Ci eravamo incontrati
la prima volta per una mostra sostenuta dai soldi degli operai isontini
e non ceravamo allontanati molto da quelle motivazioni. La
pubblica istituzione come controparte di un sindacato degli artisti,
un committente che sostituisse, almeno parzialmente il collezionismo
ricco. La sua ironia e la mia ostinazione nascondevano male il nostro
disagi. "Ma il nostro è un mondo schizoide, cari amici".
Era caratteristica la sua attenzione per la persona sincera, anche
se modesta, poarin. Mentre a qualche persona molto intelligente
toccava la battuta sconcertante ed impietosa. Una volta mi rammaricavo
di non saper capire larte del Veronese, scandalizzando un
collega. Albino prima liquidò il Veronese, poi il collega.
Dopo, in strada, camminando svelto come usava, la sigaretta tra
le dita, parlava dei teleri di S. Sebastiano come se li avesse dipinti
lui e sorrideva tutto contento dei suoi paradossi.
Questo era, che della pittura si poteva dire quello che si voleva,
tanto le parole centravano poco. |
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TESTIMONIANZE
(dal catalogo della mostra "20 anni di pittura",
Museo d'Arte Moderna,
Udine, 1988)
Sergio Altieri
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