Era l’estate
del 1955: la campagna assolata, una luce abbagliante, la strada
sassosa e polverosa, secca da un impietoso agosto.
Il verde sfumato degli alberi e campi, velo d’umidità.
La motocicletta di Albino filava docile di curva in curva ed io
a cavalcioni mi tenevo stretto alla vita. Una solitudine ed un silenzio
irreale nella verzura pallida, lontano il bianco ospedale.
Albino, mio compagno di Carminati, si era offerto di accompagnarmi
a Mirano in sanatorio ove da un paio di mesi era ricoverato mio
padre; il compenso di una vita di lavoro tra il ferro e il fuoco
e qualche breve sosta all’osteria tra pochi, veri compagni
mai iscritti al partito fascista.
Albino amava questa sua “macchina” che gli dava evasione
dopo le lunghe soste nelle nostre vecchie soffitte, i nostri atelier
di Palazzo Carminati sovrastanti i tetti della città.
Giungemmo in un viottolo con paletto e targa arrugginita ma ancora
leggibile; dopo un centinaio di metri a passo d’uomo, oltre
un piccolo fossato, dietro ad una rete, tra ciuffi di canne e sterpi,
in una specie di piccola radura, stava seduto mio padre; una frusta
giacca bianca troppo larga per il suo corpo ridotto a un lumicino,
le spalle cadenti, le gambe divaricate, le mani sulle ginocchia,
uno sguardo appannato, rassegnato. Fu felice di vederci pur attraverso
la rete (a certe ore c’erano divieti di visita).
Non poteva fumare né bere ma la prima cosa che ci chiese
furono le “nazionali”. Come si poteva negare il fumo
ad uno cui il medico mi aveva detto: “Suo padre avrà
circa un mese di vita”? |
|
(dal catalogo della mostra retrospettiva
organizzata dal Comune di Venezia nelle sale dell’Opera Bevilacqua
La Masa (22 marzo–13 aprile 1986)
di Renato Borsato |