Si succedono
le mostre, i libri e i cataloghi di quel lontano e ora rivisitato
dopoguerra, quando Venezia viveva il suo impetuoso risveglio culturale
ed esplodeva la voglia sopita di fare cose nuove, quando tutti urlavano
le loro contraddittorie verità e la brezza marina creava
tumulti nelle teste. Venezia si trovò a essere la città
italiana più esposta, dove gli artisti si incontravano e
venivano anche da lontano, spinti dalla radicata convinzione di
dover ricominciare tutto da capo.
Ma non è quasi rimasta traccia di quel che fu la nostra generazione,
quella che si affacciava curiosa e incerta su un mondo adulto in
ebollizione. Non voglio certo fare una Storia dell’arte figurativa
di quel periodo, che è compito dei ricercatori, ma solo l’impressione
di un ricordo, di quella ragazzina irrequieta e avida di capire
tutto subito, certo qualcosa di diverso da quanto insegnavano al
liceo, dove si seguitava ancora con l’impasto fascista. Gli
occhi di Lucatello e i miei — e dunque inevitabilmente un’altra
parziale biografia di lui, ma con l’aggiunta di molti tratti
personali e spicchi di cronaca visti con l’arbitrio dei giovani
che giudicano in bianco e nero e aborrono il grigio.
Ci incontrammo nel 1947, quando io avevo appena compiuto sedici
anni e lui venti.
La mia era una famiglia antifascista e anticlericale, piccolo borghese,
un po’ anticonformista e abbastanza colta. A casa mia c’erano
tanti libri e tanti quadri: la mia nonna materna, armena, era una
pittrice di rilievo e mio zio paterno, un medico con una splendida
casa nelle Mercerie, raccoglieva dipinti antichi. Ma da noi i soldi
erano pochi, ricordo la fatica di arrivare a fine mese, durante
la guerra e anche dopo; siccome però l’ascendenza era
di avi abbienti anche se tracollati, c’era forse, nel nostro
sbandierato progressismo, una punta di snobismo che faceva infuriare
Albino, il cui percorso era stato analogo ma tutto costruito sulla
pelle. Fu mal tollerato dai miei, che lo vedevano come uno strambo
senza arte né parte, incapace di provvedere a una futura
famiglia – contrasti che si attenuarono leggermente e solo
per convenienza dopo il matrimonio.
In tutti i casi la mia precoce scelta nei confronti del partito
comunista fu certamente convinta ed entusiasta e frutto di una cultura
romantica, come del resto lo furono tutte le ideologie del Novecento
e tanto più le utopie. E naturalmente l’utopia fa presa
sui giovani, anche perché è quella la brevissima e
luminosa stagione in cui l’ansia di perdite e guadagni, di
potere e di prestigio non è ancora l’imperativo nel
progetto della vita. Marx e Nietzsche, i poeti tedeschi e i romanzieri
russi e francesi, e le conseguenze del loro dire sulla lacerante
inquietudine che percorreva il secolo, sono state drammatiche sia
a destra che a sinistra – ma a quell’età, devo
dire, e con le letture che avevo fatto io, era bello sentirsi un
poco eroi, dalla parte giusta, quasi nel rimpianto di non aver potuto,
per ragioni anagrafiche, aver messo in gioco la vita stessa. Il
comunismo era sceso come una colata spontanea dal mito che avvolgeva
la guerra partigiana (Scritto sotto la forca, mi commuove persino
il ricordo). Eroi e dannati. Le retate, le torture della polizia
fascista, le fucilazioni e le impiccagioni dei banditen per opera
dei nazisti, il “bus de la lum” – che era un orrido
nel bosco del Cansiglio, un buco che a guardarci dentro sul fondo
s’intravedeva un tenue chiarore e i fascisti facevano camminare
i partigiani su due lunghe tavole intrecciate nel mezzo, che poi
si aprivano all’improvviso nel vuoto – e poi, dapprima
velati e mormorati, i resoconti dei treni blindati dove gli ebrei
venivano gasati o di quegli altri treni che li portavano verso i
campi di sterminio. Lo sgomento incredulo nel veder sparire famiglie
intere, dall’oggi al domani.
Albino nel frattempo frequentava l’Istituto d’arte e
si comportava da impertinente oppositore del regime per puro istinto,
in cerca di un’aria meno soffocante, e andava a distribuire
volantini e una notte la passò in questura. Fu spedito a
scavare buche, cioè trincee, a Marghera, dove si autonominò
capo di una piccola brigata e la guidò nei patteggiamenti
con i soldati tedeschi al fine di ottenere cibo e permessi e soprattutto
di scappare dalle bombe alleate.
Così, finita la guerra, ci trovammo a vivere una realtà
rovesciata, che a noi pareva autentica e finalmente priva di retorica.
Albino non aveva una famiglia acculturata alle spalle, e se ne doleva.
“È comodo andare a casa e chiedere, avere delle risposte”,
diceva. Suo padre Andrea – che aveva fatto la prima guerra
mondiale e una rocambolesca fuga nella rotta di Caporetto, aveva
perso un occhio, colpito da un martello durante un lavoro da fabbro
e faceva il bidello all’Istituto d’arte. Nell’ambiente
era popolare e apprezzato, anche per via di un’onestà
e di un senso del dovere quasi maniacali. Quando morì, ebbe
un funerale nella Basilica dei Frari con un seguito inaspettato
e lo scultore Alberto Viani, che fino ad allora aveva avuto lo studio
presso l’Istituto, lo lasciò perché, mi disse,
ora non mi riesce più di lavorare. Era soggetto a rabbie
improvvise che faticava a controllare e dicevano che fosse anche
geloso. Sua moglie Teresa detta Giegia, era intelligente, mi raccontava
episodi della sua vita affascinandomi con una verve narrativa di
grande efficacia. I suoi avi maschi erano marmisti, scolpivano angeli
e statue funerarie ed era anche imparentata con il pittore Giacomo
Favretto, che con grande finezza riproduceva scene di vita veneziana
(è esposto al Museo d’arte moderna di Ca’ Pesaro),
morto poverissimo e al quale, mi diceva, negli ultimi anni sua madre
portava ogni sera un pentolino di cibo caldo. I due figli Albino
e Arcangelo (Nino) – c’era anche una figlia, Maddalena
– frequentarono dunque l’Istituto d’arte perché
era nel corso naturale delle cose, eppure entrambi, vedi i casi
della vita, erano eccezionalmente dotati.
Albino era semplicemente innamorato dell’immagine fin da quando
aveva cominciato a guardare il mondo. Da piccolino aveva ammirato
ardentemente i madonnari che si esibivano nei campi veneziani e
lui – non aveva ancora sei anni – disegnava coi gessi
colorati, sul ponte dei Frari, Mussolini a cavallo – con la
disperata vergogna di sua madre perché i passanti, ammirati
e inteneriti, gli allungavano qualche soldo.
Nella biografia che ho pubblicato, scrivo che Albino pensava pittura,
ed è vero; il suo processo mentale era impostato su una sequenza
ininterrotta di immagini. Non so come queste forme siano scientificamente
spiegate, sono affini alle immagini eidetiche ma con altro contesto,
una specie di percorso intellettuale alternativo. Mi rendo conto
dell’approssimazione di quanto sostengo e non so spiegarmi
meglio, ma ho vissuto accanto a lui per tanti anni e ho avuto tante
prove della sua particolare costruzione mentale, per cui sono giunta
alla conclusione che attraverso strumenti del tutto diversi si possano
raggiungere traguardi culturali di uguale spessore.
La famiglia era cattolica, moderatamente osservante ed era del tutto
naturale che lui facesse vita da oratorio. La bellissima Basilica
dei Frari (abitavano a poche centinaia di metri), dopo San Marco
la più importante di Venezia, aveva molti preti ed era ben
organizzata. Vantava per esempio una compagnia teatrale per ragazzini
e Albino era sempre tra i protagonisti – gli piaceva molto
esibirsi (ci sono alcune fotografie di lui in costume). Tra i preti
dei Frari c’era padre Maurizio, giovane e aperto, che dopo
un po’ di anni venne punito con un trasferimento forzato a
L’Aquila. Era affezionato a quel bambino bello, biondo, vivace
(che lo ricambiava con trasporto) e ne aveva fatto un chierichetto
e un attore – ma aveva intuito che la sua fissa era la pittura
e allora gli aveva mostrato le stampe che la Basilica conservava
copiose, e Albino aveva avuto il permesso esclusivo di consultarle,
lo incoraggiò a visitare le altre chiese dove abbondavano
i capolavori. Lui restava incantato dalla magia di quelle forme
che con ineluttabile rigore occupavano lo spazio, dal fascino dei
colori sbiaditi ma impreziositi dal tempo. I primi mesi della nostra
conoscenza mi fece fare il pellegrinaggio di tutte le chiese veneziane,
che sono una miniera di bellezza, e full immersion all’Accademia
o alla scuola di San Rocco, la domenica mattina quando l’ingresso
era gratuito. Fu quello il mio vero battesimo nella storia dell’arte
– (qualche anno dopo consumammo i piedi a Firenze) e quel
nostro ristretto ma incessante dibattito ci fece crescere molto,
anche se spesso a scapito delle lezioni scolastiche.
L’Istituto d’arte non aveva niente a che fare con l’Arte,
era stato concepito per insegnare un mestiere (tre anni, dopo la
scuola media, e l’acquisizione del titolo di “maestro
d’arte”); si usciva pronti per fare gli orafi o i tessitori
di stoffe pregiate, ma Albino era altro, così gli insegnanti
ne riconoscevano il talento ma dicevano che quello non era posto
per lui e che se ne andasse all’Accademia. Insomma la sua
carriera scolastica fu quasi disastrosa. All’Accademia comunque
ci andò, con un permesso particolare di “esterno”
e seguì i corsi di pittura di Giuseppe Cesetti.
Intanto, con la guerra ormai alle spalle, la cultura cercava uno
stacco eclatante dal passato. Il fascismo, che pure aveva ereditato
la grande stagione futurista, come tutte le dittature incoraggiava
un’arte autocelebrativa, o permetteva al massimo qualche avanguardismo
che comunque non mettesse in discussione l’ideologia. C’erano
grandi pittori come Morandi, come Sironi o Virgilio Guidi che sembravano
gradire le lusinghe del regime, molti lavoravano in silenzio e quasi
di soppiatto – e questo perché sovente l’arte
riesce a sopravvivere nel fraintendimento ignorante. Spesso l’arte
religiosa aveva poco da spartire con la fede, importava che il racconto
seguisse alla lettera i dettami dell’ortodossia ufficiale,
che serviva a insegnare ai fedeli analfabeti la retta interpretazione.
In laguna primeggiavano Ettore Tito e Cagnaccio di San Pietro, ironizzati
dai giovani che li definivano “passatisti”. Ma loro
contemporaneo era anche il grande Gino Rossi, e c’erano Moggioli
e Seibezzi (ottimi vedutisti), Neno Mori, lo scultore Toni Lucarda,
artisti che avevano messo a frutto l’impressionismo e visto
qualcosa dell’arte francese successiva.
Lucatello, tanto per essere chiari, ha l’intima convinzione,
mai velata dal dubbio, di essere un grande pittore. È un
ragazzino e per avere l’aria dell’artista vissuto, si
fa crescere il pizzetto e un po’ i capelli folti sulla nuca
– allora già una trasgressione. Con finta disinvoltura
frequenta la Scalera Film, alla Giudecca – Cinecittà,
trasferitasi al Nord sotto la minaccia dell’occupazione alleata,
continuò a lavorare a Venezia per qualche tempo anche nel
dopoguerra – dove con l’amico Bobo Ferruzzi dipinse
alcuni scenari di ambientazione indiana, e non so proprio se e come
siano stati utilizzati (il film si chiamava On the river), ma ricordo
bene che lo pagarono.
Dipinge una Venezia un po’ trasognata, poetica, diurna o notturna,
con barche ancorate lungo i canali, che entrano nel paesaggio come
elementi intrinseci e le senti dondolare pigre in un’atmosfera
sospesa. Quadri che gli compera per poche lire il padre di un suo
compagno di scuola, un operaio fantasioso e sensibile, entusiasta
delle doti che intuisce in quel ragazzo, e tanto basta ad Albino
per comprarsi i colori. Sono gli stessi quadri che mostrerà
a Berto Morucchio (era un’assolata mattina di febbraio del
1947) mentre, come gli piaceva tanto fare, pontificava seduto alle
Zattere al caffè da Nico. Era un uomo grande e grosso, con
l’occhio furbo e divertito, sempre pronto alla battuta polemica.
Capita a persone dall’intelligenza vivace e con qualcosa da
dire di non raggiungere la meritata autorevolezza nell’ambiente
cui potrebbero molto giovare, forse sopraffatti dal cicaleccio e
da una diffusa resistenza all’aria fresca – certo Morucchio
non fece la carriera di critico che si era ripromesso eppure lasciò
un segno, soprattutto nella generazione che si affacciava allora
sulla scena. Il giudizio nei confronti del giovane artista fu lusinghiero
e incoraggiante e ne nacque una sorta di amicizia che durò
negli anni. È con questo viatico e con il primo premio per
il disegno alla Scuola libera del nudo dell’Accademia, assegnatogli
da Virgilio Guidi che la dirigeva, che comincia la carriera artistica
di Lucatello.
Il dopoguerra, e un clima di grande eccitazione. Un bel giorno era
apparso Vedova: alto, magrissimo e barbuto, una specie di Fidel
che non passava inosservato. Diceva di essere un partigiano ma era
poco convincente e per qualche ragione nessuno gli credeva: si sussurrava
che fosse stato renitente alla leva e, ridacchiavano, che si fosse
nascosto nel folto di un bosco. Non so se invece sia stato misconosciuto
un paragrafo in qualche modo glorioso della sua biografia. Comunque
era esuberante e si impose subito tra gli artisti allora accreditati.
Aveva l’età giusta e il piglio polemico adatto al momento.
Ma anche il talento. Ricordo che nel 1946 lui e Pizzinato allestirono
alla Galleria dell’Arco, (un’associazione culturale
di giovani di sinistra che si occupava di letteratura, teatro impegnato
e arte dentro il Palazzo delle Prigioni vecchie, i Piombi) –
una mostra con grandi quadri ispirati alla Resistenza che ottenne
uno strepitoso successo di pubblico. Dopo l’asfissiante retorica
fascista, questo fu un evento di tale rilevanza e rinomanza quale
è difficile oggi concepire: era tornata la libertà
nell’arte e insieme si celebrava il mito dell’antifascismo
resistente. Come ho imparato nel corso del tempo, mode e miti rivestono
facilmente la vaghezza dell’inquietudine umana e, tra la folla
acclamante, molti avevano certo aderito al regime del dittatore.
Ma durante l’estate di questo agitato ’46 si preparavano
altre tumultuose manifestazioni.
Giuseppe Marchiori, voce incontrastata del Gazzettino di Venezia
che collaborava con la stampa nazionale, aveva cominciato dipingendo
in proprio, poi si era innamorato della pittura di De Pisis e aveva
iniziato a scrivere e via via si era disegnato una carriera di critico
d’arte. Più tardi era nato l’amore per gli astrattisti
che non lo avrebbe lasciato più. Mostro sacro per i giovani
artisti, grande cultura e piglio autorevole. Appena finita la guerra,
elaborò un progetto ambizioso (e forse giocò di anticipo
sapendo di avere in casa alcuni dei nomi giusti e il clima già
in fibrillazione): bisognava riaprire agli artisti gli orizzonti
della cultura internazionale. Appunto nell’estate del 1946
chiamò a Venezia l’amico Renato Birolli, lo portò
in una saletta dell’albergo all’Angelo nei pressi di
Piazza San Marco, dove già c’erano Emilio Vedova, Armando
Pizzinato, Giulio Turcato, Alberto Viani, Giuseppe Santomaso e non
so chi altro. Fondarono la Nuova Secessione Italiana, che poi si
chiamerà Fronte Nuovo delle Arti: stesero un manifesto, poi
sottoscritto anche da Guttuso e Morlotti, nel quale, oltre a ribadire
la nuova libertà conquistata, esprimevano un’apertura
particolare nei confronti del cubismo. Un anno dopo, nel giugno
1947, i frontisti si riunirono in una mostra collettiva a Milano,
nella Galleria della Spiga. Ma passeranno alla storia con una collettiva
alla rinnovata Biennale del 1948 che gli riservò due sale,
con un saggio critico di Marchiori che affermava con vigore il ripudio
degli orrori della guerra e il risveglio dell’arte italiana.
I contrasti, dentro e fuori il gruppo, sia in ambito artistico che
politico, furono immediati, aspri, rumorosi e rasentarono la rissa.
Tutto questo sta scritto in tanti saggi, rivisto e corretto in continuazione
dagli storiografi e se io ne riporto i tratti salienti, così
come li ricordo, è solo per la comodità di chi eventualmente
legga queste note e possa quindi più agevolmente seguirle,
salvo approfondire in sede più adatta.
C’erano affollate riunioni al “Bottegon” (un altro
locale veneziano) o nelle sale della Bevilacqua La Masa, cui noi
partecipavamo con trasporto, ma il paio di generazioni che ci divideva
dagli importanti e affermati protagonisti, il fatto che Lucatello
e i suoi coetanei fossero ancora ai loro inizi confusi e incerti,
ci lasciava impietosamente ai margini. Ma vivevamo sulla pelle la
disputa in atto e ci sentivamo costretti a scelte esistenziali.
Era scoppiata la grande guerra tra l’astrattismo e il neorealismo,
senza contare le mille sfumature che s’infiltravano tra una
concezione e l’altra. Ricordo un violento attacco di Vedova
contro il neorealismo che egli considerava – non del tutto
a torto visto l’improvvido interloquire togliattiano –
un’imposizione politica.
Eppure il neorealismo fu un fenomeno distintivo di grande portata
nel Novecento italiano – non propriamente un’estetica,
né una poetica; nasce come una manifestazione antiregime
fin dagli anni Trenta, in letteratura con Silone, Moravia, Pavese
e tanti altri. Denuncia una condizione umana di sofferenza e di
dolore, la coscienza di una connivenza colpevole, che lo rende unico
nel panorama europeo, e molto più accentuato nel dopoguerra.
Basti pensare al cinema, a Riso amaro di De Santis, per esempio.
Essere neorealisti significava impegno etico che, almeno a quel
tempo, era strettamente intrecciato alla politica. Potremmo chiamarlo
etica politica? Niente a che fare con il naturalismo, niente a che
vedere con il realismo dell’arte bolscevica, niente affatto
un’arte populista o moralista ma, appunto, etica si. Arte
e politica seguono tuttavia percorsi e categorie mentali assolutamente
diverse, possono toccarsi e convivere ma per breve e fuggevole tempo,
almeno in clima di democrazia. Il neorealismo era trasfigurante
esattamente quanto gli altri ismi e presentava, com’è
naturale, la stessa esigenza di trasmissione empatica, tanto è
vero che non mi risulta fosse particolarmente apprezzato dalla classe
operaia cui era virtualmente rivolto.
Il caso più clamoroso fu quello di Armando Pizzinato, che
si era presentato al Fronte nuovo delle arti come astrattista già
piuttosto affermato. Partecipò a un convegno su arte e politica
che si tenne in quel periodo a Bologna su iniziativa del Partito
e tornò a Venezia che era neorealista convinto. Praticamente
dalla sera alla mattina. Dispute, sarcasmi, altisonanti dichiarazioni.
Ormai i giochi erano fatti e la ribalta lentamente si spegneva.
O di qua o di là. Albino ragionava: uno non può mettersi
a fare astrattismo di punto in bianco, tanto perché va di
moda; la forma è qualcosa che si conquista con un processo
mentale che si travasa nel segno. Bisogna cominciare scavando nella
propria essenza, far emergere la propria cultura e il proprio particolare
per poi mettersi nella condizione di allargare il proprio orizzonte
fino a superare tutti i confini. Fu questo il suo percorso. Ma amava
molte forme della pittura astratta: Kandinski, Marc, Klee, Mirò,
Mondrian lo incantavano e quando sentì parlare per la prima
volta del Manifesto Blanco di Fontana ne fu attratto – anche
se nemico del neorealismo – non solo per la sua forza rivoluzionaria
ma perché inseriva un nuovo concetto di spazio che, incredibilmente,
andava a esaltare la sua particolarissima visione della realtà,
come si farà sempre più chiaro a partire dai Delta.
Intanto capitavano cose anche assurde, come quando Albino finì
in prigione, tra la costernazione di quanti, pur considerandolo
un soggetto imprevedibile, mai se lo sarebbe aspettato. Accadde
nel 1948, quando ci furono le famose elezioni politiche che diedero
il via all’insediamento della Democrazia Cristiana, e noi
ci dedicammo con entusiasmo alla campagna elettorale convulsa, rabbiosa
e lontana da ogni ragionevolezza che le preparò. Una sera
Albino e Bobo Ferruzzi (avevano bevuto un po’ troppo?) partecipando
al comizio di una candidata democristiana che si chiamava Ida d’Este,
presero a contestarla pesantemente e furono arrestati e portati
in prigione a Santa Maria Maggiore. Trascorsero in carcere una quindicina
di giorni, compresa la Pasqua, e poi furono rimessi in libertà
provvisoria per interessamento del “sindaco rosso” Giobatta
Gianquinto che li considerava “prigionieri politici”;
mi arrivavano ogni giorno lettere infelicissime con sulla busta
i vistosi timbri istituzionali. Mesi dopo ebbe luogo il processo
e andò bene, furono assolti per insufficienza di prove perché
il padre di Bobo, un ricco antiquario, pare avesse trovato il modo
di convincere gli agenti a dire che non erano in divisa e che forse
gli imputati non avevano individuato in loro la forza dell’ordine.
E aveva pagato un buon avvocato per entrambi. Fu un’esperienza
di cui parlò a lungo.
Quando si inaugurò la prima Biennale del dopoguerra, l’avvenimento
era atteso con febbrile emozione e impazienza. Era l’avvenimento
degli avvenimenti. Era l’ora della verità. Qui non
importa raccontare di quella Biennale, chi c’era e via dicendo
– ci sono i documenti; a me interessa dire dell’impatto
che ebbe su di noi. Fu una rivelazione e ne parlammo fino a sfinirci.
Per quanto riguarda noi due, dirò soltanto del turbamento
e dell’eccitazione che fu vedere Cézanne dal vero,
quelle nature morte che erano l’abbecedario del cubismo, quella
lezione d’arte che, una volta digerita, toglieva ogni mistero
a quella che per noi era l’arte contemporanea. Cézanne
fu la nostra pietra miliare, il prima e il dopo. Mia madre lavorava
alla Biennale e dunque non era difficile rimediare dei biglietti
gratuiti, così passammo ore a girare per quelle sale, spesso
in silenzio per non disturbare quel processo invasivo che ti cambiava
la vita.
Fieri della facilità con cui ci pareva di appropriarci, almeno
mentalmente, di questa nuova sferzante entità, ci divertivamo
al soprassalto che coglieva gli “accademici”, per lo
più artisti anziani e ingessati nel loro fare ripetitivo
e nostalgico, per non dire degli stralunati visitatori.
Si riparte da zero. Le nostre accese discussioni – le rammento
appassionate ed estenuanti – in quei giorni inquieti vertevano
su un problema che allora ci sembrava assolutamente vitale: forma
e contenuto. Perché se la pittura doveva fare la scelta obbligata
(per noi) del sociale, dalla parte dunque del neorealismo, allora
non si poteva sottrarsi al soggetto (contenuto): i lavoratori, i
diseredati – avevamo in mente scenari come i dannati della
terra che tanti anni dopo avrebbe immortalato Salgado. Ma poi, dato
questo per scontato, quale doveva essere la forma? e la forma come
si rapportava col contenuto? Se si poteva esprimere il contenuto
attraverso la forma, allora si dava ragione a un certo astrattismo
(concreto, materico, espressionista) ma questo non era fare il gioco
dei borghesi? Esisteva dunque la forma antiborghese, proletaria?
Riesumate oggi queste discussioni, me ne rendo conto, suonano risibili.
Oggi è tutto post. L’astrattismo, che ha toccato tutti
i toni e i mezzitoni e i sottotoni, che disorientava i perbenisti
dell’arte, non ha più segreti, è ormai roba
d’archivio come tutto il resto, e se la massima provocazione
sembrava lo sbrego di Fontana, ora anche quello, se conserva un
mistero, è soltanto il mistero dell’arte. E i suoi
manifesti non sono neppure più una provocazione, solo cronistoria.
Ma in quel primo dopoguerra? E all’età che avevamo?
Visto che sto parlando di una storia conclusa, posso dire che no,
non sono stati inutili quei confronti esasperati, ci aiutavano a
liberare il pensiero da tante scorie, soprattutto aiutavano Albino
a far chiarezza in se stesso, a fargli capire quello che davvero
voleva: realtà più che realismo, materia oggettiva,
il particolare del mondo offerto al mondo. È dunque la forma,
concludemmo alla fine, che comprende il contenuto, come la scelta
dell’inquadratura di un grande fotografo.
Noi due abbiamo sempre parlato molto, insieme al rapporto sentimentale
abbiamo costruito una grande amicizia. Ci capivamo con un’occhiata,
che bastava a un rimando essenziale. La nostra storia di coppia,
il matrimonio, è stata simile a tante altre, con problemi,
incomprensioni, le sue frequenti diserzioni dietro a donne che lo
coinvolgevano e di cui poi mi raccontava, sia prima che durante
il matrimonio; i figli, la situazione economica sempre critica anche
perché non voleva sottostare ad alcuna regola di buon senso
– ma accanto c’era questa amicizia nata nell’adolescenza
che resisteva invulnerabile: in tutti quegli anni, notti intere
a parlare, davanti al quadro appena dipinto, o perché c’era
da discettare sull’interpretazione di un critico, o perché
avevamo visitato una mostra o perché insomma c’era
qualcosa di cui valeva la pena di parlare. Anche in allegria, quando
si dovevano commentare le incredibili uscite di qualche personaggio
che aveva capito tutto, o malignare sulle tante consorterie che
lui teneva a distanza (non tanto per moralismo ma perché
gli sembrava che, ad accettarle, avrebbero sminuito la pulizia della
sua arte) – infatti Albino aveva molto sviluppato il gusto
per l’ironia e la dissacrazione e aveva sempre la battuta
pronta. Se devo essere sincera è nei confronti di questa
solida amicizia, di questo rapporto intelligente, caldo e affettuoso
che va la mia nostalgia.
Torniamo al dopoguerra: per la vita condotta fino ad allora, per
l’esperienza artistica, sociale e culturale accumulata, era
dunque inevitabile per Lucatello abbracciare in prima istanza il
Neorealismo, e in fondo anche per lui il cambiamento fu, o sembrò
essere, repentino. Una scelta che gli alienò l’iniziale
interesse di Marchiori, allora uno dei pochi critici di valore a
Venezia; ma anche questo fa parte del difficile rapporto con i critici
che contrassegnò la sua carriera. Eppure Marchiori fu uno
tra i pochissimi che Albino apprezzò veramente. Ma quanto
a occasioni perdute o, si potrebbe dire meglio, testardamente rifiutate,
non eravamo che al principio. Eccone un’altra.
Protagonista, forse la vera anima che stava dietro il risveglio
veneziano, fu Carlo Cardazzo, mercante d’arte, allora proprietario
della Galleria del Cavallino a Venezia e anche della milanese Galleria
del Naviglio. Il Cavallino era una piccola galleria nel cuore della
città, a due passi dal teatro La Fenice. Provavo un sentimento
reverenziale quando ci entravo, si respirava un’aria da “piani
superiori” dello spirito. Ricordo un’affollata riunione
in cui De Pisis, con consumata teatralità, recitava le sue
poesie tra un religioso silenzio. Era una fucina di “maestri”
e, perché no, di “geni”. Carlo Cardazzo era un
uomo alto e grosso, dall’aspetto autorevole, colto e signorile
nel gesto (io lo ricordo così). Fu certamente un grande mercante,
con il fiuto del segugio. Molti dei maggiori pittori italiani sono
stati scoperti e portati al successo da lui. Usava imporre loro
dei contratti ferrei, che certo non gli permettevano di fare una
gran vita, ma li ha portati rapidamente a far parte integrante della
storia dell’arte italiana. Quando Cardazzo offrì a
Lucatello, alle prese con le collettive della Bevilacqua e le prime
personali, di entrare nella sua “scuderia”, disse di
no. Si rendeva conto di quello che perdeva ma, mi disse, poi devi
fare come ti dicono loro, fare i quadri a comando, seguire direttive.
Io non voglio. Andò così e così si chiuse l’accesso
al Cavallino, se non per apparizioni sporadiche.
La sua adesione iniziale al neorealismo si manifestò con
la grafica. E fu una grande stagione, perché poi nessuno,
che si sia occupato di lui, ha potuto prescindere dalla sua grafica.
Silvio Trentin, storico e critico autorevole, parlò sempre
con ammirazione di Lucatello grafico. Ma il discorso è forse
più sottile. Lucatello si definiva pittore tout court e usava
il carboncino perché gli pareva che soltanto quello strumento
gli permettesse di esprimere il particolare discorso che aveva in
mente, soprattutto se doveva indulgere tra le pieghe di un volto,
o nel dar conto di uno sguardo tormentato. Un po’ come il
fotografo improvvisamente sente il bisogno della pellicola in bianco
e nero. È una cosa diversa dal considerare la grafica per
se stessa. Si trattava, particolare non del tutto estraneo, di uno
strumento economico: comprava carta da pacchi, era poca la carta
buona, la fabriano, e ciò gli permetteva facilità
nello scarto. Invece la pittura costava. Lucatello è sempre
stato generoso nel buttar via ma se si trattava di un quadro, a
quei tempi, gli dispiaceva lo spreco. Spesso gli capitava di grattare
una tela e ripitturarla. Bisogna trovarsi senza una lira in tasca
per capire. D’altra parte, il segno sul foglio bianco è
un banco di prova e di verità, non ci sono camuffamenti.
Dopo aver vinto quel primo premio che Guidi gli assegnò per
un disegno (è un mio ritratto) e che definisce “al
limite della scoperta”, Lucatello partecipa alle annuali collettive
della Bevilacqua La Masa con disegni neorealisti. Vince premi, si
crea subito una reputazione, si forma persino intorno a lui una
piccola corte di giovanissimi fan e imitatori. Naturalmente nel
neorealismo i soggetti sono intrinsecamente importanti e lui li
cerca dapprima tra i carbonai che vede e conosce a San Vio. Lì,
nel canale, arrivano le peate di carbone dalle quali i carbonai
trasportano sulle spalle i sacchi e, dopo un breve tratto sulla
riva, raggiungono un deposito. Sono giovani robusti, abbronzati,
anneriti dalla polvere scura. Quando hanno finito e prima di ripartire
si fermano al Cantinone storico. È (era) una bellissima osteria,
con odorosi tavoli di legno e le pareti scure di fumo, di proprietà
di un anarchico (il compagno Spina) sposato con una russa che era
lettrice alla Facoltà di Lingue. Durante il fascismo, quando
arrivava a Venezia Mussolini o un alto gerarca, venivano messi in
carcere senza tanti complimenti ma che svolgessero attività
sovversiva non c’è dubbio. Insomma era un Cantinone
storico perché tale era. Quando lo frequentavamo noi lo gestiva
la figlia dell’anarchico, una bella donna mora e formosa,
popolare in tutto il quartiere, che si chiamava non a caso Libertà.
Al Cantinone si beve vino rosso e si assaporano i cicchetti, che
sono assaggi di pesce o di salumi, tanto per buttar giù meglio
l’ombretta. Albino ha un carattere espansivo, parla con i
giovani carbonai, compete con loro a braccio di ferro e li convince
a stare in posa, divertiti, mentre lui traccia rapidi segni e uno
di loro va nello studio a posare, per pochi soldi. Alla Bevilacqua
La Masa il primo o il secondo premio sono sempre per lui, ma se
presenta un quadro lo scartano o non lo vedono, perché “tu
sei un grafico” dicono, e lui si irrita e li insulta anche,
non avendo mai provato timidezza nei confronti di quei piccoli intellettuali
boriosi che sembrano rigenerarsi all’infinito.
Non sono solo carbonai, c’è l’operaio dormiente
(molto grande), e il seminatore e il raccoglitore di cetrioli. Gli
è stato assegnato da poco lo studio di Palazzo Carminati
che manterrà per dieci anni. Devo parlarne.
L’Opera Bevilacqua La Masa è una Fondazione istituita
dall’omonima marchesa per aiutare i giovani artisti e il patrimonio
consiste in palazzi a Venezia e qualche possedimento in terraferma.
Oltre alle sale di esposizione di piazza San Marco, dove ogni anno
si tiene (si teneva) una grande mostra collettiva riservata ai giovani
artisti che inoltre, su domanda, possono poi allestire le loro personali
– c’erano a San Stae, all’ultimo piano di un alto
palazzo, gli studi dei pittori che non erano in condizione di pagarsi
un affitto. La Fondazione è retta da un presidente, dal quale
dipende una serie di uffici e che, quando serve, nomina una commissione
con compiti di selezione. Per ottenere qualcosa si fa domanda, la
commissione si riunisce e decide. Nel 1949 a Lucatello, che già
aveva raggiunto le primissime affermazioni, venne assegnato uno
studio. Era a Palazzo Carminati, a San Stae: si saliva un numero
infinito di gradini per accedere finalmente a un’ampia entrata
quasi quadrata sulla quale si affacciavano i sette studi, che presumo
fossero intesi all’origine per ospitare la servitù.
C’era anche una scaletta che portava a un altro locale, una
specie di soffitta. Gli studi non erano grandi uguali, e poiché
alcuni erano adibiti ad abitazione e vi vivevano artisti–coniugi
e in un caso persino un bambino, nell’assegnazione si teneva
conto anche delle esigenze familiari. Erano giovani o meno giovani
ma comunque poveri, e non ricordo passaggi significativi: Saverio
Barbaro, Ennio Finzi e anche Hollesch – ma per tratti fugaci
e poi è passato moltissimo tempo e i miei ricordi sono frammentari.
Una cosa posso dire, che in quel piano viveva un’umanità
strana e stramba, che mi ricordava certe ambientazioni di Dostoevskij
a Pietroburgo. In uno viveva una coppia di artisti liguri, lei corpulenta
e claudicante, che sempre mi chiedevo come facesse a salire quella
scala sfibrante. In un altro una coppia con un bambino, se non ricordo
male erano profughi istriani, e per loro sbarcare il lunario era
un’impresa: tuttavia, quando il marito le affidava i soldi
per la spesa lei era capace di tornare dal mercato con una primizia
e nient’altro. Di gran lunga i più interessanti, di
cui fummo subito e per lungo tempo amici, erano Valeria Rambelli
e Ottone Marabini, una coppia di pittori che dello studio avevano
fatto la loro casa. Valeria era l’anticonformista per antonomasia,
una specie di hippy ante litteram, per quanto ne so proveniente
da una famiglia abbiente con la quale aveva scarsi rapporti: capelli
lunghi, neri e lisci, non bella ma con occhi neri intensi, aveva
frequentato l’Accademia con Bruno Saetti ed era rimasta sotto
la sua influenza; una forte personalità e senza dubbio il
carattere dominante della coppia, sempre vestita con lunghe e coloratissime
gonne zingaresche che sarebbero venute di moda anni dopo. Ottone
era un bel ragazzo, anche lui uscito dall’Accademia, mite
e tranquillo, dipingeva quadri figurativi, ma vibranti e aggressivi
nel colore. Certamente una mano d’artista. Non ebbe alcuna
fortuna in vita, anche perché non era nel suo carattere cercarla,
ma sono sempre rimasta sorpresa che i suoi quadri, magari postumi,
non siano riusciti a imporsi perché sono sicura che valgono
molto di più di tanti che vengono battuti nelle aste nazionali.
I Marabini erano fedelissimi adepti di Rudolf Steiner, nella sua
accezione più esoterica. Ogni sera all’imbrunire –
in questo studio affollatissimo di cose, dove c’erano i cavalletti
con sopra i quadri in corso d’opera, in un angolo un mucchio
di vestiti, in un altro la pentola che bolliva con la cena, dappertutto
pile di libri, telai ammucchiati o tele arrotolate ma del quale
ricordo l’atmosfera calda e gradevole – una decina di
noi, seduti in cerchio intorno a un tavolo con un bicchiere di vino
(ma non si eccedeva affatto) leggeva e commentava un libro di Steiner
appunto e si rasentava la parapsicologia e si toccavano i massimi
sistemi. Essendo di parecchi anni più anziani e addentro
ai misteri steineriani, erano loro a condurre il gioco e questo
durò (c’era un giorno fisso la settimana) per molti
mesi, finché si tradusse da categoria dello spirito a religiosità
vera e propria. E c’era un tipo, autorità indiscussa
in materia di cui ora mi sfugge il nome, che in un posto nel sestiere
di Cannaregio, officiava delle vere e proprie messe, durante le
quali bisognava annullare la propria coscienza fino all’affiorare
di visioni metafisiche illuminanti. Io assistetti a una di queste
messe perché la curiosità era forte, ma Albino non
volle seguirmi e quello fu comunque il punto di rottura perché
con la nostra impostazione laica e un po’ blasfema non potevamo
reggere oltre. È certo comunque che per un po’ di tempo
i Marabini ci soggiogarono con un sottile senso mistico e questo
– assieme ai precedenti dell’oratorio infantile –
può aver giocato un ruolo nel misticismo di certi “momenti
di natura” del periodo friulano di molti anni dopo.
Lo studio di Albino era uno stanzone luminosissimo, con due finestre
molto alte che guardavano su una distesa di tetti. I tetti di Venezia
sono diversi dagli altri tetti, sono (a noi sembravano) unici, con
quel colore caldo, quell’assieparsi sopra case dai colori
diversi e spesso inusitati, che dall’alto si distinguono appena.
Impossibile che un pittore restasse indifferente, non importa cos’altro
avesse in testa. C’era la magia della luce, mutevolissima,
quei cieli che cambiavano continuamente il quadro, che ogni volta
che gettavi lo sguardo oltre i vetri ti restituiva emozioni impreviste.
In un angolo c’era un tavolo di legno, con sopra una piastra
di marmo e un mattarello. Con quello Lucatello impastava i colori,
polveri e trementina, e poi riempiva dei tubetti che si compravano
vuoti. Colori a olio e colori a tempera. Era un lavoro lungo e delicato,
faticoso, perché l’impasto doveva risultare compatto
e insieme fluido, privo di grumi. Era un metodo artigianale che
aveva i suoi vantaggi, oltre a essere economico garantiva colori
di ottima qualità e di lunga durata, e trasmetteva la sensazione
di far propria la materia da cui il quadro nasceva. Certo era faticoso
e appena ci furono i soldi per comprare i colori già pronti
fu un lusso, ma Albino restò esigente perché diceva
che i suoi quadri dovevano durare in eterno.
Era uno studio comodo e ci trascorreva lunghe ore: c’era una
brandina, rotoli di carta da pacco per disegnare, un paio di cavalletti,
qualche sedia e libri con riproduzioni d’arte impilati per
terra, le pareti fitte di disegni e di quadri, pronti a finire ammucchiati
per far posto ai nuovi. L’atmosfera era quella di un laboratorio
un po’ bohémien. Allegro perché pieno di luce.
Appena sposata vissi lì dentro per un paio di settimane e
non me ne è rimasto un cattivo ricordo. Erano molti i clienti
che salivano le scale per venirlo a trovare. È incredibile
quanto numerosi fossero gli estimatori di un artista ancora tanto
giovane, per lo più personaggi strani e improbabili che avevano
un solo lato in comune, pagavano poco, pochissimo, anche se i soldi
li avevano. Comunque salivano. Tra tutti ricordo Attilio Arduini,
un imprenditore in campo cantieristico, se non ricordo male. Capitava
in studio periodicamente e comprava tutti, proprio tutti i disegni
in quel momento disponibili. In una domenica successiva, ci riceveva
nel salone di un palazzo sul Canal Grande, posava sul tavolo un
enorme vassoio straccolmo di ottimi bigné alla crema e stendeva
per terra i disegni acquistati. Si decideva insieme quali tenere
e quali scartare, così in un certo senso il prezzo stracciato
dell’inizio si riequilibrava un poco. Quando i clienti se
ne andavano dallo studio con l’acquisto in mano, la prima
tappa era per comprare carta e tela e colori, poi in osteria, dal
“fritolin” dove si mangiava appunto il pesce fritto
che veniva posato sul tavolo di legno preparato con un foglio di
carta spessa, una fetta di polenta calda e del vino “fatto
dai contadini”. Insomma dopo appena un paio d’ore i
soldi della vendita erano prosciugati. (Ormai i “fritolini”
non esistono più, e abbiamo perso molto).
Lucatello continua a disegnare (io sono una modella paziente) e
si fa strada appunto il periodo dei tetti. Come ho detto guardava
fuori dalla finestra e poi dipingeva. Lui si fissava su un soggetto
e lo pitturava in continuazione, è sempre stato questo il
suo metodo, lavorare su qualcosa che ha in mente con accanimento,
fino a trovare ogni risposta, fino a poter conquistare una sintesi,
serena e definitiva nella conclusione. Ora erano i tetti, che con
il Neorealismo (quello storico) non hanno più nulla a che
fare, ma realismo resta. Albino guarda e racconta realtà.
Certo è la sua visione, ma lui è convinto che si tratti
di realtà oggettiva e il concetto, che è alla base
di ogni suo sviluppo pittorico dai Tetti in poi, si definisce poco
dopo quando va in Polesine.
La prima volta (1951) si trattava di una gita organizzata dal Partito.
Il Polesine allora era terra di miseria e di emigrazione, cera
stata una devastante alluvione e i pittori erano pregati di andare
a vedere de visu quanto choccante fosse la disperazione sociale
e a trarne le dovute conseguenze (artistiche). Lucatello resta debitamente
impressionato e qualche anno dopo ci torna da solo e si ferma in
un paesino sul Po, Scardovari, infestato di zanzare, e dorme in
una locanda dove il caldo umido raggiunge vertici insopportabili.
Le Donne del Polesine sono disegni a carboncino e anche qualche
quadro a olio dove però usa solo il bianco e il nero. È
la soluzione che trova nei confronti di quelle donne dal volto austero
e sofferto, la cui dignità innata è il frutto di secoli
di cultura contadina.
Ma ci sono i Delta. Ed è proprio su quelli che si concentra
quando ritorna nella zona, nel 1958, dopo la seconda alluvione avvenuta
lanno precedente. Un vero e proprio periodo, e
una sorta di rivoluzione nella sua pittura. Visti come da uno sputnik
trionfante, scriverà Rosada. La terra di un nero brillante,
umida e spessa, quasi sempre arcuata intorno allacqua fangosa
che muta di colore a seconda della luce e quindi dellora,
e così il cielo, se cè, è bianco o giallo,
o rosso o nero e allora tutto il quadro è nero. È
questa, appunto, la nuova dimensione della realtà, forse
difficile da accettare per i più, ma che è quella
e non altra. Qualcuno ha scritto che riproduceva “l’emozione
della realtà”, ma non è così, quella,
come dicevo sopra, per lui era realtà e basta, materia altra
da sé e che si prefiggeva di trasportare in pittura –
certo con una prospettiva diversa, il particolare dilatato, che
diventa centro che a riccio racchiude l’universalità
del fuori, – e l’indifferenza e l’insofferenza
verso canoni e codici. E se non sono Delta sono Stagni al tramonto
o Stagni all’alba o Stagni di notte. Ci sono anche le Terre,
nere o brune, lucide e gocciolanti, che torneranno a infilarsi spesso
nel corso della sua opera, anche se in differenti modi e forme.
Ora i critici cercheranno un ismo in cui rinchiudere Lucatello:
espressionista astratto o astratto materico, o astratto concreto
o spazialista o... tutto ma non semplicemente realista, come lui
pretendeva. La difficoltà sta nel fatto che non concede punti
di riferimento alla sua realtà, e allora quando in Friuli,
anni dopo, dipingerà il Tagliamento, qualche volta incollerà
dei sassi sul greto del fiume, come a dire: adesso lo riconoscete?
I critici del Novecento hanno amato molto le catalogazioni e il
fatto che Lucatello volesse sfuggirvi non deponeva a suo favore.
Ma fa eccezione l’articolo di Bruno Rosada su “Evento”,
scritto in occasione di una personale. Rosada ha capito tutto subito
in modo semplice e limpido, eppure era allora un giovane ancora
alle prime armi, ancora incerto in quale campo davvero sviluppare
le sue certe doti (ora insegna all’Università materie
umanistiche). Quell’articolo resterà sempre caro a
Lucatello che lo considerava un punto fermo nella sua carriera,
come se fosse stato scritto chissà da quale illustre e famoso
specialista.
È sempre in quel periodo, e sempre con l’organizzazione
del Partito, che va nelle risaie del Vercellese e disegna le mondine,
giovani esuberanti e ilari, o quelle più anziane, gonfie
e stanche e disilluse. Oppure curve nel gesto monotono e antico
della raccolta con i piedi ammollo. Lo stile è neorealista
quanto quello dei carbonai.
Dopo lunghe ore di lavoro nello studio spesso, verso sera, andavamo
a sederci all’esterno di un bar–osteria che si trovava
nel vicino campo di San Giacomo dell’Orio per bere l’ombra
e parlare. Nel campo c’erano alcuni alberi, disposti a distanza
regolare, che gli davano un tono stranamente agreste rispetto a
tanti altri simili. Albino dipinse quegli alberi in una piccola
serie che, devo dire, non ho assolutamente più visto sebbene
la ricordi bene. E ricordo anche che allestì una personale
all’interno di un albergo di Treviso dove erano esposti soltanto
quegli alberi. Mi pare ci fosse anche un cataloghino ma non ne è
rimasta traccia.
Oltre a Rosada, che aveva capito subito, vorrei ricordare due persone
che lo seguirono sempre con affetto e certo anche con ammirazione
convinta. Una fu il poeta Diego Valeri, che fu presidente della
Bevilacqua La Masa e che gli scrisse qualche presentazione sui cataloghi
e, già anziano, prese il treno per approdare a Udine in occasione
della sua prima personale in quella città. Valeri parlava
di un “naturalismo” innato dell’artista e ciò
mostra che intuiva a cosa il quadro mirava. L’altro è
Luigi Ferrante, critico d’arte e saggista, interessato alla
filosofia sociale, che lo conosceva da sempre ma poi si era inserito
in un ragionamento convergente con quello di Lucatello e se non
fosse morto prematuramente forse sarebbero arrivati insieme da qualche
parte. E c’era sempre Morucchio, naturalmente.
Il gallerista fisso, l’unico in verità che Lucatello
ebbe a Venezia, fu Gianni De Marco. Con tutto il bene che gli volevamo,
francamente non era il gallerista autorevole capace di dare visibilità
a un artista. Ma organizzava mostre, sapeva venderti un quadro,
ti dava economicamente una mano se eri sull’orlo di una crisi
economica (e capitava sovente). Insomma non era certo Cardazzo,
si era autoinventato gallerista e seguiva regole sue, ma proprio
per questo piaceva a Lucatello, perché lo accettava senza
discutere, lo stimava senza dar peso alle graduatorie. Era un personaggio,
Gianni. Nato da una famiglia povera aveva dovuto arrangiarsi molto
presto e aveva cominciato col trasportare i quadri di De Pisis con
una barca, in giro per i canali di Venezia da e per la stazione
ferroviaria, o Piazzale Roma o nelle varie sedi delle mostre. Questa
amicizia con De Pisis gli permetteva di sopravvivere e, sveglio
com’era, di capire l’ambiente in cui si muoveva. Ne
ho sentite tante su quel suo periodo, di come abbia saputo sfruttare
la situazione. Può darsi e non importa. Del resto è
incredibile il chiacchiericcio che anima il sottofondo del mondo
artistico, pettegolezzi e sottintesi che mai cercano una verifica.
Se fosse nato a un altro indirizzo, se avesse studiato, Gianni aveva
la stoffa per diventare un mercante di qualità, invece cominciò
dalla gavetta e fece tutto da solo. Si creò il suo piccolo
spazio senza un supporto culturale e con la sola intuizione, anche
se non sapeva rispondere a tono al parlare forbito ed ermetico dei
critici. Per un periodo fu proprietario addirittura di due gallerie
e di un negozio di cornici, poi diventò amico di Virgilio
Guidi, anzi il suo factotum – alla fine era lui a dirigere
il vero e proprio business delle autentiche. Con qualche disinvoltura?
Ma era il vecchio Guidi a firmare.
Albino esponeva anche in altre gallerie, quella di Sandri in campo
Manin, molte volte alla Galleria Santo Stefano della signora Zamberlan,
che era una raffinata intenditrice – e dove si incontrava
spesso Felice Carena, con la sua imponente barba bianca e l’aria
tanto distinta; a San Vidal e in altre gallerie veneziane scomparse
di cui non ricordo nemmeno il nome; in quel periodo allestì
personali anche a Roma, a San Marino, a Padova, a Treviso, a Milano.
Mandava quadri a tutti i “Premi”, per esempio quello
di Burano (che aveva una storia antica e affascinante) di Suzzara
(molto accosto al Partito), o di Bergamo, ce n’erano tanti,
e la Triveneta di Padova e la Quadriennale di Roma, e un’infinità
di ex tempore organizzati nei paesi in cerca di promozione turistica
dai quali saltava quasi sempre fuori un premio acquisto. Chissà
dove sono finiti quei quadri, appesi tra tanti altri nei corridoi
di qualche Comune sperduto.
Lucatello sta dipingendo i Tetti quando, durante una personale alla
Bevilacqua La Masa, entra un pittore californiano, più o
meno coetaneo. Si chiama Shirle Goedike. I due non s’incontrano
ma quando torna a Los Angeles l’artista americano informa
la sua Galleria, la Esther Robles Gallery, che ha scoperto un pittore
eccezionale, che assolutamente bisogna invitare. Lo invitano a una
collettiva intitolata Artists invite artists cui partecipa con un
bellissimo quadro di tetti che ora si trova nella casa di un avvocato
di Atlanta – e subito dopo gli arriva una lettera che, ricordo,
cominciava così: “You will be a success in America!”
e seguiva un contratto in piena regola. Arrivò Goedike con
la moglie, arrivarono i galleristi (marito e moglie), arrivarono
altri artisti. Come si evince dai dati biografici gli allestirono
alcune personali e lo fecero partecipare a collettive importanti.
Lui spediva i quadri più belli, voleva rispondere alle aspettative,
si sentiva ripagato quando vendevano i quadri a prezzi inaspettati
e mandavano dollari. Per un po’ pensò di avercela fatta,
che sarebbe diventato famoso superando, così, i problemi
economici, con la soddisfazione di non essere mai sceso a compromessi
di sorta. La cosa cessò bruscamente. C’era il maccartismo
e dire comunista in America a quei tempi era tabù, noi sospettavamo
fortemente di un collega che, invidioso, si fosse premurato di fare
la “soffiata”. Ma c’era anche il fatto che mentre
i Tetti erano quadri colorati, gradevoli, i Delta erano invece difficili,
misteriosi, spesso inondati da una luce violenta, rossi o gialli
ma qualche volta cupi. Lui non percepiva affatto questa diversità,
se io gliela facevo notare mi guardava interdetto: di che parli?
è la stessa cosa. E Los Angeles, soprattutto a quel tempo,
era cosa molto diversa da New York. Non ci fu comunque alcuna spiegazione
da parte della Galleria, neppure una riga, i pagamenti già
annunciati dagli estratti conto semplicemente non arrivarono, una
quarantina di quadri, di grande formato e molto belli, per lo più
Delta, Stagni e Terre, non tornarono più.
Ancora un’occasione mancata, dal punto di vista economico
e carrieristico, fu quella con Peggy Guggenheim. Ma si trattò
in questo caso di una scelta caratteriale ineluttabile. Ho conosciuto
la Guggenheim da vicino, quando ero ragazzina, al suo arrivo a Venezia.
Da Parigi dove allora viveva, si era rivolta a mia madre, probabilmente
tramite la Biennale dove lei lavorava, e la incaricò di trovarle
un palazzo sul Canal Grande dove andare ad abitare e dove trasferire
la sua favolosa collezione d’arte contemporanea. Se non lo
avesse trovato, disse che avrebbe rivolto il suo interesse all’Egitto.
Le piaceva Il Cairo. Mia madre naturalmente era interessata perché
ci avrebbe rimediato la provvigione. Fu una trattativa lunga e subito
la Peggy rivelò la tirchieria che l’affliggeva, come
capita a molti ricchi, e il suo timore, al limite della paranoia,
di essere in qualche modo fregata. Si pervenne all’acquisto
di Villa Corner dei Leoni dove subito, nello spazio di approdo al
Canal Grande, l’americana installò la bellissima statua
di Marino Marini con il cavaliere dalle braccia allargate. I restauri,
la direzione dei quali affidò a mio padre e ricordo che lo
fece ammattire, presero un po’ di tempo ma bisogna dire che
Peggy Guggenheim aveva un eccezionale buon gusto e il risultato
fu affascinante.
Viziata, abituata ad averla sempre vinta, chiedeva molti favori
a mia madre, compreso quello di tenerle i cinque cani quando era
in viaggio (e una volta uno cadde dalle scale di casa con nostro
grande spavento e rischiò l’osso del collo, ma lei
non lo seppe mai) – e forse per questa ragione invitava spesso
a pranzo tutta la famiglia in quella sala dove c’era uno splendido
tavolo quattrocentesco fiorentino. Ma indubbiamente c’era
dell’amicizia genuina tra loro, anche perché, mia madre
essendo inglese di nascita, c’era facilità di dialogo.
Aveva arredato un simpatico salottino all’aperto nel cortile
davanti alla casa, dove offriva tè e whiski agli ospiti che
costantemente arrivavano a trovarla da ogni parte del mondo. Erano
rigorosamente artisti, per lo più pittori, qualche scrittore
(ricordo Truman Capote). Si diceva che comunque non ci rimettesse
mai perché in qualche modo questi ospiti riconoscenti per
l’accoglienza veneziana l’aiutavano a rimpinguare la
sua collezione con una spesa contenuta.
Ancora chiacchiere, mormorii e pettegolezzi. Per esempio che si
fosse trovata al posto giusto nel momento giusto e che durante la
guerra, quando comprare era facile e si facevano ottimi affari se
ben consigliati, si era fatta quell’invidiabile collezione
che l’aveva resa celebre in tutto il mondo sfruttando la fame
degli artisti.
A Venezia si guardava intorno, aveva amici tra pittori e scultori,
per esempio Santomaso era un suo fedelissimo, ma cercava anche tra
i giovani cui, se al talento aggiungevano un aspetto gradevole e
il tono appena un po’ adulatorio, era disposta a dare una
mano. Mia madre, che più o meno tacitamente disapprovava
Albino per il suo non voler o non saper coltivare le convenienze
sociali, glielo presentò, sperando di aprirgli una strada
vantaggiosa, ma i due non potevano proprio trovare un punto in comune.
Lui si sentiva a disagio, era un modo di stare dentro la vita diametralmente
diverso. Alzò le spalle e se ne andò con qualche commento
sprezzante. Mi rendo conto che questi atteggiamenti di Lucatello
possano suscitare qualche perplessità; questi suoi costanti
rifiuti, questo frapporre intralci alla stessa fortuna quando lo
sfiorava, possono apparire in sostanza un capriccio di un moralista
un po’ snob, ma se era così devo confessare che, a
quel tempo almeno, aveva tutta la mia solidarietà –
e comunque l’uomo era questo e questi erano i suoi comportamenti.
Così al suo posto arrivò Tancredi. Era un bel ragazzo,
aveva fascino e aveva bisogno di riscuotere il piccolo mensile che
la ricca americana gli offriva. Ma Tancredi si legò alla
figlia di Peggy, anche lei pittrice, fragile e bella. La madre contrastò
violentemente quell’amore e obbligò la ragazza a tornarsene
a Parigi dal padre. Dopo poco tempo Pegeen, così la chiamavano,
si suicidò. E Tancredi se ne andò in Svezia. Questa
è la versione che ricordo. Peggy Guggenheim fu una presenza
importante a Venezia, parte integrante del suo spazio artistico
e va a disdoro del Comune non aver saputo raccogliere con un po’
di coraggio il lascito generosamente offerto alla città.
Oggi la Fondazione Guggenheim sarebbe veneziana, di sicuro meno
efficiente ma certamente anche meno asettica, più rivelatrice
di quel connubio intimo e sofferto che ci fu tra Peggy e l’inquieta
Venezia di quel tempo.
Intanto io mi ero trovata un lavoro, e questo significò che
non avrei più vissuto in simbiosi con Lucatello. Dovevo pur
dare un qualche indirizzo alla mia vita, per lo meno così
si esprimevano i miei che già imputavano ad Albino di avermi
distratto dagli studi (e in parte era vero perché troppe
volte avevo marinato le lezioni per andare all’osteria con
lui, fermamente convinta che i nostri discorsi riguardassero argomenti
più elevati). Avevo frequentato il liceo classico, trascorsi
alcuni mesi in Inghilterra nella casa di una vecchia amica della
mia nonna armena con l’intento di affinare la lingua e quando
tornai mamma mi aveva già trovato un impiego di segretaria
negli uffici di una famosa vetreria. All’ultimo momento, per
fortuna, la richiesta di un conoscente che aveva rapporti con la
Biennale mi cambiò l’esistenza. Cominciò la
mia vita all’Interfoto, un’agenzia fotogiornalistica
il cui proprietario era Dino Jarach, un signore ebreo quarantenne
che amava molto la fotografia ma anche il successo. Voleva pochi
dipendenti che dovevano essere sceltissimi e li pagava bene, come
fossero il doppio di numero. E naturalmente era esigente. È
stata quella la mia Università, che durò dieci anni.
Leggendo i giornali dovevo individuare i servizi, mandare i fotografi,
costruire la storia con le fotografie, scrivere l’articolo
e le didascalie – persino didascalie di moda senza capirci
molto. Coprire gli avvenimenti delle varie Biennali e della Mostra
del Cinema. Intervistare artisti e attori, poi un giornalista affermato,
senza muoversi di sede, avrebbe dato la sua impronta al mio articolo
e lo avrebbe firmato. A volte si lavorava anche tutta la notte,
c’erano periodi molto faticosi ma nell’insieme era un
lavoro creativo, che appassionava e divertiva. Più tardi
Jarach si trasferì a Milano specializzandosi nelle fotografie
di moda che rendevano molto, e io rilevai per qualche tempo l’agenzia
facendola diventare la Cameraphoto. Amai moltissimo il mio lavoro,
conobbi tanta gente, toccai con mano la grande fragilità
e superficialità della comunicazione ma anche i suoi aspetti
coinvolgenti e fascinosi, capii come la fama può cambiare,
o raramente non cambiare, le persone. E naturalmente imparai ad
amare la fotografia, anche perché avevamo fotografi strepitosi
come fu, per tutti, Claudio Gallo.
Albino viveva di riflesso questa mia nuova condizione e ne trasse
il vantaggio di avere una puntuale documentazione fotografica del
suo lavoro e anche di se stesso e della sua famiglia. Perché
intanto ci eravamo sposati e avevamo cominciato subito a dar vita
a dei bellissimi bambini. Cinque, e allora non esistevano servizi
sociali, per cui a un certo punto decisi di lasciare il lavoro per
dedicarmi a loro, e lo feci quando Albino ottenne il posto all’Istituto
d’arte di Udine, anche perché era indispensabile che
ci fosse almeno un introito mensile sicuro.
Amici ne avevamo tanti, e molti erano artisti. Mi viene subito in
mente Bepi Longo che ha un suo posto particolare nella pittura veneziana
del dopoguerra. Un isolato e non per vocazione ma per una straziante
fatalità. Bepi viveva un’esperienza umana dolorosissima,
avendo sofferto di un lupus che gli aveva devastato completamente
il volto e le mani. Quando lo incontravi era sempre un sussulto,
ti sforzavi di mostrare indifferenza, gli stringevi la mano simulando
calore, provavi per lui affetto e tenerezza, ma era sempre una prova
e, dopo esserti allontanato, andavi a bere qualcosa per tirarti
su. Un gruppo di amici ed estimatori a un certo punto mise insieme
una somma per farlo operare, ma al tempo la chirurgia estetica era
ancora agli inizi e il risultato fu davvero misero, quasi controproducente.
A un certo punto non resse più, cominciò a bere cognac
con determinazione suicida, ebbe ricoveri in manicomio e come capita
agli alcolizzati cronici era preda di allucinazioni terrificanti.
Morì così. Era pittore autentico, Bepi Longo. Le sue
venezie cupe, i suoi verdi freddi, il suo modo di scavare il paesaggio
che ti fa precipitare dentro derive inconsce e non cercate, è
poesia struggente, che ti lacera. Bepi Longo è vivo ancora.
Un suo amico fu Giovanni Pontini, un artista proletario che un bel
giorno si era inventato pittore, eppure non mancava di un certo
carattere.
Ma un grande amico fu Angelo Caramel. Brutto, intelligente, bizzarro
e insofferente delle regole. In primo luogo quelle familiari. Ancora
ragazzo, era emigrato clandestinamente in Francia (all’epoca
serviva il passaporto), lo processarono e lo assolsero per incapacità
di intendere. Un giorno andò dal barbiere e gli chiese di
dipingergli i capelli di bianco – voleva contrastare il padre
autoritario che cominciava sempre i suoi discorsi con: “io
che ho i capelli bianchi...” - ma per l’iniziativa del
barbiere ne uscì di un rosso acceso. Di Angelo ricordo soprattutto
i disegni, il suo tratto finissimo, penetrante, poesia e poesia.
Quante cose di valore si perdono nei rivoli del tempo, quando sono
soltanto sussurrate. Con Angelo Caramel fummo amici stretti per
anni, con quotidiana frequenza (con noi c’era quasi sempre
la mia amica di una vita, Luciana Cedolini) e con lui erano ore
di discorsi perché aveva una cultura brillante, era pieno
di autoironia e le sue battute taglienti. Si suicidò.
C’era anche Sandro Sergi, sciancato, pittore delicato e sensibile,
matto, intelligente e simpatico.
E poi Renato Borsato, uno dei testimoni alle mie nozze civili, celebrate
quando ero incinta di Lucia. Era un giovane esuberante e che non
mancava di talento, ma poi perdeva il filo e si lasciava risucchiare
dalle amenità e dalle piacevolezze della pittura.
Ennio Finzi e Saverio Rampin, due pittori coevi coi quali Lucatello
espose abbastanza spesso in collettive e con i quali mantenne rapporti
anche dopo il trasferimento in Friuli – arrivarono quando
io già lavoravo e fanno parte di un gruppo di amicizie di
Albino che io vissi più dall’esterno.
Tutt’altro era Amedeo Renzini, un bel ragazzo biondo che poteva
sempre contare su donne innamorate e adoranti, tra cui una moglie
(Nietta, nipote dello storico e critico Lorenzetti) e che continuò
a mettere al mondo figli fino a quando fu vecchio, ma sempre affascinante.
Aveva fatto il partigiano e quando era tornato era stato assunto
alle Poste con l’unico compito di aggiustare una certa macchina
quando questa, di rado, si rompeva. Percepì uno stipendio
con una simile finalità fino alla pensione. Naturalmente
gli restava molto tempo libero per pensare alla pittura: dipingeva
una Venezia un po’ ironica e abbastanza ripetitiva, ma fresca
e immediata. Era un uomo intelligente, sempre schierato con i perdenti.
È stato un personaggio singolare ma in un certo modo indispensabile
al panorama di quel tempo.
Ho accennato a questi artisti che popolavano Venezia ai tempi della
mia ricostruzione – e non ho parlato di Licata, Mario Deluigi
(molto considerato da Albino), Gaspari, Gambino, Domestici, Alviani...
– per dare la sensazione appena accennata di quello che si
muove nel complesso mondo artistico di una qualsiasi città,
dove poche sono le personalità che emergono e che trovano
posto nella storia dell’arte ufficiale. Insisto sul fatto
che a Venezia questo ambiente era di notevole livello. Molti artisti
toccarono giustamente la fama, altri probabilmente si meritavano
qualche riconoscimento in più mentre, sfogliando le attuali
rivisitazioni, vedo che resiste la gloria di personaggi banali che
sapevano vendersi bene e si trovavano sempre al posto giusto, magari
nella firma di un manifesto o nella foto accanto al personaggio
acclamato.
Di qui il discorso mi porta, con naturalezza, a parlare di Virgilio
Guidi. Dell’incontro di Lucatello con lui ho già accennato
a proposito del primo premio che gli assegnò alla Scuola
libera del nudo che dirigeva all’Accademia di Belle Arti.
Guidi amava la vita dei caffè nei quali trascorreva praticamente
tutto il suo tempo libero: beveva molto latte perché spesso
lamentava disturbi alla stomaco e per lo più analcolici,
discorreva di tutto, qualche volta ma di rado alzava la voce e si
adirava, era ironico, amava molto sfottere, e giocava interminabili
partite a carte. Dapprima lo salutavamo appena con timore, noi eravamo
ragazzi e lui nella piena maturità e quel suo fare burbero
ci intimidiva. Sedeva con Cardarelli alle Zattere, l’ho visto
anche con Ezra Pound. Insegnava all’Accademia di Bologna,
perciò era spesso su e giù col treno. Andava nei caffè
a orario fisso, se lo volevi incontrare bastava un’occhiata
all’orologio e andavi a colpo sicuro alle Zattere, o in campo
Santo Stefano o da... o al bar al Teatro in Campo San Fantin accanto
alla Fenice, dove spesso la sera cenava. Considerata la vita sedentaria
che conduceva, dovrebbe stupire i medici vedere quanto a lungo visse
anche se, per quanto ho visto, era un tipo frugale. Per lunghi anni,
di fronte a lui, sedeva la “baronessa”, quella che appare
tante volte ritratta, che non parlava molto ma aveva spesso lo sguardo
divertito e ammiccante. Anche lei giocava a carte. Una piccola corte
di giovani fan sedeva intorno al maestro per lo più per adularlo
e questo gli piaceva tanto che generalmente era lui a pagare le
consumazioni per tutti. Dopo averlo frequentato per tanti anni,
posso dire che era un uomo generoso e sensibile, ma certamente un
narciso. Era scoperto e puerile il suo modo di godere dell’ammirazione
e del consenso e forse per questo preferiva istintivamente i giovani;
scriveva versi ermetici, che mi recitava con la sua voce bassa e
ispirata, intimamente convinto di essere un grande poeta oltre che
un grande pittore. (Ricordo che per un certo periodo, ero molto
giovane, anch’io scrissi poesie, e un giorno gliele lessi.
Lui restò in silenzio con l’occhio divertito. La mia
ispirazione si troncò sul nascere). Pittore di grande respiro,
che faceva innamorare, lo era.
Sono stati fatti molti accostamenti tra Albino e i pittori più
disparati, finendo sempre con Hartung e Wols, ma in verità
se qualcuno davvero influenzò Lucatello questo fu proprio
Guidi. Un’influenza dovuta all’ammirazione convinta,
che senza dubbio lo avvicinò allo spazialismo di Guidi, in
particolare alle marine (anche se Albino non ne dipinse mai). Ma
la natura dei due artisti era drasticamente differente: Lucatello
era terragno e, seppur sottovoce, mantenendo saldi i principi atmosferici
della pittura veneziana, condivideva con Guidi soltanto le ragioni
profonde di una cultura umanistica.
Diventammo molto amici, anche quando da Roma arrivarono la moglie
e la figlia, e la sera si cenava assieme. E ci regalò diversi
quadri che noi regolarmente svendemmo.
Finché ci trasferimmo in Friuli.
Fu una spaccatura netta, un prima e un dopo. Ma la storia è
un lungo filo (come dice Carlo Ginzburg) che non si rompe, non può
rompersi, e ti accompagna, anche se qualche volta hai l’impressione
che possa sfilarsi dall’ago. |
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Sul (nostro) dopoguerra a Venezia
di Giselda Lucatello |