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Scritti dell'artista
Rassegna stampa

cfap, 1978
Scritti dell'artista
   
In questo tumultuoso e caotico rimescolarsi di valori e di pseudo valori, di senso e di non senso, di "ismi" e di tradizioni ancestrali e di modernismi futuribile, il discorso culturale si fa sempre più sfaccettato e nebbioso. Il vivere quotidiano, e la lotta contraddittoria, tutto del gesto umano si fa cultura e tradizione. Ma la tradizione — e la cultura — vanno intese come gli innumerevoli segni di un’esperienza trascorsa, che diventa conoscenza oggettiva e non, come di frequente accade, un tutto cui si guarda con ottusa incapacità o addirittura con furba speculazione.
L’uomo è tale quando riesce a re–inventarsi all’infinito. Purché questo nascere continuo abbia in sé una dinamica vera, in proiezione, e non si riduca invece a un moto introverso, quasi statico nell’essenza.
In questi termini il discorso comincia a farsi più chiaro, e più chiara la responsabilità dell’operatore culturale, si tratti dell’artista o si tratti del critico che vuol fargli da interprete.
Dell’artista, che quando trasmette il suo discorso all’altro, già ha captato la tradizione, che è stata storia, e cerca la sua forma nel rapporto costante con il presente, che è storia che si fa.
Del critico – né s’intenda questo uno sfogo personale — che non può continuare (come troppe volte ha fatto in questo secolo confuso), a manipolare un discorso parallelo, che è suo e non dell’artista di cui parla, e che troppo spesso riflette un soggettivo fallimento di ambizioni non risolte. Egli deve, con qualche umiltà dopo tutto, e senza tanta preziosa degnazione, individuare l’artista al di sopra delle mode mercantili e far da tramite nel spiegare un discorso che è sempre semplice, quando è autentico, ma che si è voluto finora mantenere ermetico e difficile per farne merce da iniziati.
Se lo sa fare — e non dimenticando mai comunque che anche l’ultimo degli artisti è uno che le mani se le sporca, e fa lo sforzo di capire.
E questo si collega, in un certo modo, alla questione del dissenso, sul quale la Biennale di Venezia ha recentemente montato il suo gigante d’argilla. Perché se è giusto che sia del tutto libero il dire di ognuno, e dell’artista massimamente, non si dimentichi che in questa nostra decantata civiltà occidentale l’intolleranza nei confronti dell’artista male accetto al potere è esistita ed esiste ancora, dilaniante e distruttiva nella sua squallida indifferenza, fatta di violenza mentale e pratica di ogni grado, che ha spento e spegne tantissime voci.
Per questo è rivoltante la speculazione interessata che oggi viene fatta di questo dissenso lontano, esaltando insieme i migliori con le erbe secche e ragionando di cose di casa d’altri trascurando le nostre.
Il pensiero si libera con la lotta costante e cosciente contro il sistema prima e, di là dei muri, contro la vecchia cultura che resiste. Il nostro, di qua, è certamente un lavorare in svantaggio.

Albino Lucatello

Su un punto sono d’accordo tutti: il personaggio.
Eppur se l’immagine che se ne fa pretestuosamente concede di evitarne l’impatto, sfuggirne la comprensione e, svicolando in fretta, liquidarlo – brutta gatta da pelare — essa, l’immagine, ha tuttavia un risvolto che mi vien comodo consumare.
E’, dunque, Lucatello, bizzarro, pittore un po’ matto, forse strano, polemico certo e non cortese: "out", intellettualizzando.
Così l’uomo come l’artista e non fa una grinza.
Perché è vero. Come vera è la sua aggressività, il suo impegno feroce, vera la morale della sua esasperata coerenza che proprio in forza di essere morale e coerente si ritrova, compiutamente sferica, "fuori" da ciò che morale e coerente non è.
Eretico in virtù di un temperamento autentico, precisato scontando sistematicamente sulla propria pelle un prezzo sempre assai caro, a volte alto, riesce a sottrarsi a chi spera di coinvolgerlo nella crisi dei valori, di consumarlo, azzerando, dialetticamente, i parametri acquisiti e, con una continua rimozione e rimessa in causa di quelli che di volta in volta potevano apparirgli e apparire dei punti di arrivo (di consumo), ribalta la situazione costringendo gli altri a pensare o a sfuggirlo.
Nei primi anni friulani, cui attinge questa mostra, sembra assicurarsi, quasi ultimo valore, il contatto con una natura che gli è specchio, straordinaria coincidenza, severa, senza cedimenti, di una bellezza aspra in cui non si insinua la commozione o il sonetto.
Sulla natura del Friuli si getta con foga istintiva per capirla (capirsi) da "dentro" e illuminarvela con la propria corrosiva razionalità e abbattendo, iconoclasta, la superficiale immagine abilmente guidata, scrostando ferocemente ciò che sa di orpello o di ornamento polemizza violento con le deviazioni della società (dialettica uomo–natura).
Si pone istintivamente oltre il massimo cerchio dell’apertura del compasso della banalità e dei codici corrosi: ancora "fuori".
E questa costante dell’esser fuori è anche il suo stile di mancare agli appuntamenti della compromissione, del discutibile gusto, e le sue nere donne friulane, inattese nel disegno dismesso, sono la più recente conferma. Vecchie donne sradicate dalla collina (o colline sradicate?) con addosso una storia impietosa di pietre e volti battuti da inganni, soprusi, violenze: boati lontani, più vicini, di ieri — il terremoto terribile ma non ultimo né diverso — di oggi, domani.
Disegni nati dal vero, un richiamo imperioso, la voce della terra tremata "fuori" anch’essi dal tempo consentito — cronaca e doveroso pianto corale — quando son già storia, "quella", sempre gli ex voto, per grazia ricevenda, che in freschi colori più abili e accorti pennelli — titoli a tutta pagina — hanno offerto al rituale invocato.
Per la stima che ho di Lucatello, il conto mi torna ancora.
Ho detto di lui e non della sua pittura? Ma è il solo modo di dirne corretto. Lui è sempre e solo la sua pittura, i colori non sono altro che il prolungamento dei suoi sensi, la sua epidermide, il quadro di una situazione esistenziale: dall’interno un autoritratto.

Renzo Viezzi

Albino Lucatello è nato a Venezia nel 1927 e ha iniziato l’attività artistica nel 1944. Da ormai diciassette anni vive in Friuli, a Tarcento, e insegna all’Istituto d’Arte di Udine.
Ha esposto in moltissime collettive in Italia, Stati Uniti, Svizzera, Germania, Francia, Jugoslavia, Olanda, Grecia, Turchia, Libano, Spagna, Paesi Scandinavi e la più recente, nel maggio scorso, all’Istituto di Cultura Italiana di Vienna.
Molto numerose le mostre personali in Italia e all’estero. L’ultima nel ’76 a Venezia, al Palazzo delle Prigioni.
Ha esposto alla Biennale di Venezia, dove nel ’56 ha ottenuto il Premio Tursi, alla Quadriennale di Roma, alla "Italian Centennial Exhibition" in California, alla "The Renaissance of Italian Painting" a Pasadena, Usa, alla "Selection of European Painters" di Houston, Texas.
Sue opere figurano in vari musei e in collezioni private italiane e straniere.
Il suo studio di Vendoglio (Treppo Grande) è stato distrutto dal terremoto.
 

Dal Catalogo della mostra Lucatello, Centro friulano arti plastiche, Udine, via B.O. da Pordenone — Galleria del Centro dall’11 al 26 febbraio ’78

 

 


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