Pauletto, 1996
Saggi critici
   
Vendoglio, Treppo, Tarcento, il Tagliamento, i Musi: in che maniera questi luoghi spiegano la pittura di Albino Lucatello?
I luoghi ci provocano, mettono in moto corrispondenze, danno occasione e misura a immagini, a stati di coscienza, rivelano noi a noi stessi e, come noi misuriamo loro, a loro turno ci misurano.
I luoghi non sono affatto indifferenti, hanno mille modi per filtrare attraverso le opere dei pittori, degli scrittori, dei poeti: a volte nella loro precisa riconoscibilità, a volte nella loro essenza, quando questa essenza si incontri con una tensione che riassuma insieme cultura e istintualità, quello che siamo nel profondo e quello che siamo diventati attraverso l’esperienza.
Chiedo scusa, ma devo personalizzare, dato che solo in questo modo posso rendere evidente la chiave di lettura che mi si è imposta, davanti alle opere di Lucatello, fin dall’86, quando vidi la retrospettiva organizzata dal Comune di Venezia presso la Galleria Bevilacqua La Masa: credo — e sarà un’affermazione arbitraria, o forse inevitabile — che il pittore abbia trovato, e proprio in quel Friuli, ciò che io stesso ci trovo e sempre continuo a trovarci: un rapporto col naturale più diretto e più aspro, più originario, dove l’inebriante profumo di una maternale dolcezza raramente si disgiunge da una sensazione di oscurità, di mistero panico: anche, e non infrequentemente, di sotterraneo timore. Insomma, una perfetta metafora della vita, che incanta, affascina, innamora: e fa paura.
Questo credo che Lucatello abbia profondamente, fisicamente sentito nella natura del Friuli, e questo egli ha detto e testimoniato, ma non solo da quando in Friuli si trasferì, bensì fin dagli inizi, usando via via con maggior consapevolezza uno strumento, insieme teorico e stilistico, che gli dava modo di ottenere i migliori risultati: lo strumento dell’immersione.
Egli elimina infatti, fin dall’inizio, ogni elemento puramente narrativo.
Vi sono bensì, ai primi anni ’50, dei disegni di figura e di paesaggio — alcuni presenti anche in questa mostra pordenonese — che sembrerebbero contraddire questa idea di immersione.
In particolare tutta la serie dei carbonai e delle mondine, nella quale l’immagine si accampa in primo piano senza altro commento che se stessa o, al più, un minimo elemento d’ambiente, tavolo o bicchiere.
Ma si vede bene, anche qui, che non vi è narrazione, che vi è piuttosto il tentativo d’immergersi in una condizione d’umanità, oltre ogni specificazione immediata. Certo, esiste un’intenzione politica dietro queste figure, ma essa non travalica il loro peso di realtà, la stessa dolorante dignità in cui sono calate ne fa emblema ed icona, non racconto, meno che mai racconto didascalico.
Se poi consideriamo attentamente, per esempio, il disegno in cui è rappresentato un gruppo di mondine intente al lavoro, vedremo che Lucatello già qui colloca le figure in un’amplitudine di paesaggio che le accoglie in una sorta di tutto naturale, e se consideriamo il disegno del bosco, ancora vediamo che egli vuole chiaramente far percepire a chi guarda non una visione, ma uno star dentro, non una immagine di, ma una immersione tra gli alberi del bosco.
E allora non ci sorprenderemo affatto, considerando la serie dei Tetti veneziani e degli Orti a Portosecco, se Lucatello avvicina in maniera grandangolare l’immagine di quei tetti e di quegli orti, materializzando la luce in articolate, intricate campiture di rossi, azzurri, grigi, neri, oppure gialli ocra e terre, per nulla preoccupandosi della riconoscibilità, solo attento, invece, a che la sua opera esprima un sentimento di appartenenza e insieme di possesso, cioè, appunto, una metaforica volontà di immersione.
Che non è, si consideri, contemplazione, non è rapimento estatico nei confronti del mondo, ma azione, coinvolgimento, volontà di divenire assieme al divenire. Ciò peraltro fu ben sottolineato da Berto Morucchio nella prefazione al catalogo di una mostra del 1969 a Venezia, quando, a proposito dell’atteggiamento dell’artista nei confronti della realtà cita Rimbaud: "Mangiamo l’aria — la roccia, il carbone, il ferro — … i sassi che un povero spacca — le vecchie pietre delle chiese … "; mangiare, impossessarsi, immergersi: Lucatello sa e sente di essere parte della natura, né crede che questo essere natura possa venir espresso in altro modo, se non attraverso l’identificazione, ottenuta da lui pittore, mediante la materia cromatica usata come il muratore usa la pietra: non per rappresentare, ma per fare, non per vedere, ma per vivere.
E si capisce anche perché lui — così evidentemente toccato dalle proposte dell’informale, cosi chiaramente attento all’arte dei maestri del secolo insistesse a definirsi realista: perché all’interno della sua ottica è appunto realismo, e nient’altro, quello che continuamente opera — magari talvolta disperando — a rendere l’illimitato, organico spessore della natura, che ingloba in sé tutto, il cielo e la terra, i fiumi e le montagne, l’opera dell’uomo e l’uomo medesimo.
Uno dei primi idoli del pittore, una volta stabilitosi in Friuli, fu il Tagliamento, come, in precedenza, era stato il delta del Po.
Se quel che abbiamo fin qui scritto ha senso, non appare difficile capire perché. Il Tagliamento è inestricabilmente vita e morte, acqua e piante, verde e grigio, bianco e rosso di tramonto.
Il Tagliamento è, anche, un grande spazio originario, geologico, l’orma gigantesca di una naturalità onnipotente, sempre diversa e sempre uguale a se stessa.
Tentar di rappresentare tutto questo in termini sia pur vagamente prospettici significherebbe immediatamente, per Lucatello, diminuirne la complessità metaforica, far diventare solo immagine ciò che è invece, per essenza, pura dimensione naturale.
L’unico strumento adatto appare allora — come già era stato per il tema del delta — l’intersecarsi di paste alte, dense, che si scuriscono in neri fondi, o s’imbiancano in candori quasi d’affresco, realizzandosi spesso in una originalissima, robusta, terrosa raffinatezza.
D’altra parte le opere friulane di Lucatello vivono tutte, in effetti, tra il polo di una potente sensualità materica e quello di una sublimata leggerezza lirica.
La quale trova nella serie de I Musi le sue realizzazioni più coinvolgenti, ma non manca di esprimersi anche in tante altre opere su tela, e pure in talune splendide carte che ho avuto occasione di vedere e che bisognerà, una volta, radunare tutte in un’occasione definitiva.
A quel primo polo appartengono certo, oltre ai Tagliamenti, visioni di terra e natura dove l’intenzione panica dell’autore è così visibile da superare qualche volta, secondo la mia sensibilità, il limite che distingue il fatto visivo dal fatto mentale, il fatto della pittura dal fatto — teorico — di una certa idea della pittura: come capita quando gli elementi linguistici dell’opera sono talmente ridotti da sfiorare l’afasia.
Era il rischio di chi puntava con tutte le sue forze a far sentire, per via di pittura, l’indissolubile intreccio che lega ogni apparenza ad ogni altra, ogni vita ad ogni altra, ogni essenza ad ogni altra.
E per ottenere, d’altra parte, risultati indimenticabili: per esempio certi momenti di natura di una tale gioiosa verità e leggerezza, che il loro verde non è più materia, ma sogno e scintillio vitale; per esempio certi momenti solari di strepitosa raffinatezza segnica, figli di una concentrazione che si stenta a immaginare; e, appunto, certi Musi, sostenuti nella loro felicità lirica con inalterabile energia creativa, da sembrare, anche le tele come le montagne, figlie della natura, della limpida, ineludibile danza della necessità.
Poiché questa era, in fondo, l’intenzione di Lucatello: fare una pittura che fosse, essa stessa, natura, che sostenesse l’illusione di poter togliere, per via d’arte, il diaframma — disperante e necessario — che la coscienza interpone tra la nostra vita e la vita del tutto.
 

“Tra il Tagliamento e i Musi”
mostra personale antologica
Pordenone, Palazzo Gregoris,
18 ottobre – 3 novembre 1996


Giancarlo Pauletto

 

 

 


inizio pagina