Come lombra
di un caro amico morto è il Tempo che fu; non so con
quale irrefrenabile evidenza mi venne alla mente questo verso di
Shelley quando appresi dal giornale che era morto Albino Lucatello,
e rimase lì sospeso, ma netto e chiaro, come lappunto
di un discorso da fare.
Mi meravigliai che il fatto di apprenderlo dal giornale mi desse
una sensazione strana; doveva invece essere normale; abitava in
unaltra città; non ci vedevamo da anni; la nostra antica
amicizia era un caro, gradevole ricordo. Mi sorpresi a pensare in
maniera un po contorta che il giornale si chiama anche quotidiano,
che la quotidianità (Alltäglichkeit) era per Heidegger
una delle fondamentali categorie dellesistenza, e che Albino
era stato un uomo la cui massima stravaganza consisteva nel dissimulare
con naturalezza i fermenti fortemente innovativi, sempre del tutto
sghembi rispetto alle mode e alle convenzioni, che teneva dentro
di sè ed esprimeva nella sua pittura, sotto un comportamento
normalmente borghese, quotidiano. Il suo abbigliamento, il suo modo
di porgere, la sua stessa taglia fisica ti davano la prima impressione
di trattare con un avvocato un medico un ingegnere: a vederlo fisicamente
in anni in cui, e nelletà in cui, la connotazione di
artista voleva trovar conferma per lo meno in un tratto anticonformista
dellabito, non si sarebbe pensato di aver a che fare con un
pittore. E a ben pensare, veramente questa quotidianità,
di cui si ammantava con naturalezza, questo buon senso, che faceva
a pugni con le mode, era il suo modo di voler andare a fondo delle
cose, in uno sforzo di convincimento che era tuttuno con la
ricerca della verità. Lui voleva esser convinto, capire,
per usare una frase banale, quotidiana anchessa come
il suo essere esteriore voleva ragionare con la sua testa.
Per me dunque apprendere la notizia dal quotidiano doveva apparire
altrettanto ovvio e normale quanto la sua giacca a principe di galles:
non cè proprio nulla di strano che gli amici sappiano
che sei morto dal quotidiano; anzi non esiste proprio nessun altro
mezzo.
Il fatto è che in lui la quotidianità era un paradosso,
un modo, se si vuole, per sottolineare linautenticità
di tante altre cose (oltre alla quotidianità stessa) che
gli altri fanno apparire autentiche innanzi tutto e per lo più
(zunächst und zumeist). La chiacchiera, per esempio, che Heidegger
si affretta a sottolineare che non ha nessun significato spregiativo:
la chiacchiera è la possibilità di apprendere
tutto senza alcuna appropriazione preliminare delle cose da comprendere...
La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime
da una comprensione autentica, ma diffonde una comprensione indifferente,
per la quale non esiste più nulla di incerto. La sua
polemica contro una certa pittura era la polemica contro la chiacchiera,
e le false certezze che ostenta.
Anche il verso di Shelley che emergeva in questo confuso senso di
cose nella sua sacrosanta ovvietà, era vero innanzitutto
e per lo più (zunächst und zumeist) i due avverbi che
Heidegger applica alla quotidianità.
Poi un giorno Giselda, la moglie, mi chiese di scrivere queste cose
che sto scrivendo, e mi disse cose che mi fecero piacere, mi pareva
di ricevere una investitura postuma da Albino; e pensai che era
il modo per realizzare il significato di quel verso, ma che dovevo
stare in guardia di non scivolare nel patetico compiendo una recherche
peraltro scontata.
Decisi di rimanere nelloggettività;di fare un lavoro
rigorosamente filologica. Albino Lucatello a Venezia; i suoi studi,
le sue mostre, le sue amicizie, i suoi discorsi: dalla cronaca alla
critica, anzi niente critica; solo cronaca: abbiamo bisogno di dati
di fatto. E poi è quello che ricercava sempre Albino: altro
che chiacchiere.
Nacque Albino Lucatello a Venezia il 21 marzo 1927. Chi erano i
suoi? che mestiere faceva suo padre? può interessare: potrei
informarmi. E poi, come nacque in lui la vocazione per la pittura?
e ai Carmini quali furono i suoi maestri? E chi insegnava in quegli
anni allAccademia? e alla scuola libera del nudo?
Certo i ricordi personali non mi soccorrono. La differenza di età,
sensibile quando si è giovani; una notevole sua precocità
insomma quando lui faceva le sue prime uscite e proponeva già
le sue opere al giudizio del pubblico e vinceva i suoi primi premi,
io ero ancora un ragazzino delle medie. Il nostro incontro è
successivo: e fu un incontro proficuo.
Dalla fine della guerra ai primi anni sessanta le Zattere, questa
dolce riva sul canale della Giudecca, esposta al sole di tutte le
stagioni coi suoi caffè, le chiassose brigate di studenti,
la meravigliosa suggestione di un paesaggio chiuso a levante dallisola
di San Giorgio e a ponente dalla mole nordicheggiante del mulino
Stucky, erano a buon diritto chiamate con facile analogia la rive
gauche con larvata e moderata allusione allorientamento politico
di tanti frequentatori, ma soprattutto per il pullulare di intellettuali
veri o presunti o sedicenti tali; ma certo anche quando la cultura
è pretesto mondano o affettazione o frivola esibizione, anche
in questi casi o proprio per questo essa è vissuta e sentita
come un valore. Posare a intellettuale è pur sempre un modo,
paradossalmente il più genuino perché il più
ingenuo, per sottolineare questo valore, anche se Albino non voleva
ammetterlo. Alle Zattere cera un clima. E lo avvaloravano
illustri presenze. Cardarelli consumava al sole le sue ultime ore.
La bianca barba di Ezra Pound attirava sguardi dubbiosi; pesava
ancora il disagio del collaborazionismo. Virgilio Guidi, che spesso,
forse sempre, accompagnava Cardarelli, si circondava di una masnada
fresca di giovani pittori di promettente talento, fra i quali Lucatello,
che si teneva per lo più in disparte con una certa compunzione,
pur godendo di una grandissima stima da parte del maestro. Accademia
di Belle Arti, facoltà di Architettura, Liceo artistico,
Istituto dArte, Liceo Marco Polo costituivano allora, come
oggi del resto, a parte la facoltà di Architettura trasferita
ai Tolentini, una sorta di retrobottega delle Zattere, distando
ciascuna di queste istituzioni non più di cento metri da
esse. Poco più lontano Ca Foscari. Non cera si
può dire tema di attualità culturale che non circolasse
fra i tavoli dei caffè dando luogo a conversazione (chiacchiere)
ora accese e animate ora più frivole talvolta convenzionali
e sbadiglianti. Il sole era lelemento socializzante, che accomunava
tutti in uno stato gioioso. Ma anche quando non cera, quando
la nebbia ti avvolgeva, cerano gli incorreggibili appassionati
che col bavero del cappotto rialzato non sapevano staccarsi da quei
tavolini e da quelle sedie. La dolcezza del paesaggio in tutte le
stagioni attraeva non meno che il fervore delle idee e la gioia
di incontrare amici e conoscenti.
Albino non era colto nel senso scolastico o accademico del termine.
Uomo di ben misurate letture sapeva giocare la propria millantata
ignoranza con candida malizia. Quando esordiva col dire io
non me ne intendo..., cera di che disperare. La sua
dichiarazione di ignoranza era una dichiarazione di guerra, il suo
modo per sgomberare il campo da ogni pregiudizio e da ogni ovvietà
che potessero servire da difesa allinterlocutore. Il quotidiano,
e cioè linautentico, spariva; e non cera più
posto per la chiacchiera. Si poneva solo davanti alle cose e con
quelle soltanto si misurava e ti obbligava a misurarti. Non aveva
paura di essere ingenuo; anzi ti portava sempre alla tabula rasa.
Di una sola cosa credo non abbia mai dubitato: della esistenza della
materia. E si irritava quando la si metteva in dubbio, considerando
questo tipo di dubbio una incredibile stravaganza che faceva dubitare
della buona fede del dubbioso, o anche un vezzo filosofico di intellettuali
borghesi. Egli rifiutava con tutte le sue forze qualsiasi variazione
sul tema dellesse est percipi. Cè fuori di me
una cosa che esiste da prima che io nascessi e che continuerà
ad esistere anche dopo che io sarò morto; e non è
solo fuori di me; è anche dentro di me; sono io stesso; tutto
è questa materia, che se non cè quella non cè
nientaltro; ma non cè niente al di fuori di quella.
Di questo era assolutamente sicuro, e batteva sul tavolo il palmo
della mano, aperto, e quel gesto voleva essere asseverativo, ma
anche dimostrativo, come se quella mano aperta e quel piano del
tavolo rappresentassero con sufficiente evidenza la confutazione
di ogni idealismo.
Il nostro incontro risale a quegli anni, a quelle dispute. Siamo
nella seconda metà degli anni cinquanta. Il problema è
quello del realismo. Albino era comunista. Ci teneva ad esserlo.
Come in tutte le sue cose, voleva essere un buon comunista. Ma voleva
ancora una volta essere convinto. In anni in cui ancora lo zdanovismo
lasciava pesanti tracce nel dibattito culturale egli contrapponeva
alle indicazioni autoritarie sul fare dellarte il suo libero
esame. Loggettività del pensiero era per lui tuttuno
con la oggettività del reale, della materia.
Sul piano professionale per la indiscutibile qualità del
suo talento non aveva avuto vita dura: esordi nel 44 a soli
diciassette anni, quando venne ammesso alla collettiva Bevilacqua
La Masa; nel 47 ottenne il primo premio della scuola libera
del nudo; nel 48 vince il premio della Rassegna dei giovani
artisti; nel 49 il primo premio per il disegno alla Collettiva
Bevilacqua La Masa; nel 50 il premio Città di Oderzo;
di quello stesso anno e la sua prima mostra personale alla Bevilacqua
La Masa: la sua attività ha in certi momenti ritmi frenetici:
nel v58 può vantare al suo attivo 10 mostre personali, 63
collettive e 12 premi, fra cui il premio Tursi alla Biennale del
56, anno in cui vince anche il Premio Burano; nel 60
le personali saranno complessivamente 14, le partecipazioni a collettive
86, i premi vinti 16. Le sue opere sono ormai nei più importanti
musei e nelle più importanti gallerie di tutto il mondo.
Sono aride cifre che però ci danno lidea del successo
personale e del consenso che Albino Lucatello ebbe fin da allora.
Ma tutto questo sembrava aver poco significato per lui. Apparteneva
alla sfera del quotidiano, dellinautentico, della chiacchiera.
E spesso lui dava limpressione di irritarsi di un successo
che temeva potesse nascondere un certo fraintendimento; e si imbestiava
quando la sua pittura, che in effetti commetteva un eccesso di realismo,
solo perché usciva dai logori schemi convenzionali della
iconografia realista, veniva detta astratta. Egli dava per scontato
che ogni forma di astrattismo fosse manifestazione immediata delle
istanze interiori del collega, che così si sentiva
di dipingere: credo che si possa interpretare abbastanza correttamente
il suo intendimento dicendo che per lui lastrattismo, ma in
genere tutte le forme di pittura non figurativa, fosse una Sorta
di idealismo dei pittori: aveva rispetto per questa forma di pittura;
ma non era la sua.
Egli viveva un altro problema, perché non dialettizzava il
suo realismo collastrattismo, ma col realismo cosiddetto socialista.
Fin dalla sua prima mostra personale lacutissimo ingegno di
Virgilio Guidi, che ne scriveva la presentazione, pose il problema
della sua pittura in termini goethiani: Io sono convinto
scriveva Guidi che i naturalisti, siano essi scienziati od
artisti, non conoscono la natura... il giovane pittore Lucatello
[aveva allora ventitré anni]... ha lapparenza naturalistica,
la giovane indeterminatezza di fronte al problema della natura,
ma in realtà la sua struttura non è naturalistica...
Si trattava di cogliere la essenza materiale della natura, correndo
un rischio ben più grave del soggettivismo, il contrario
del soggettivismo, la ricerca di una natura in sè, al di
dietro delle apparenze, metafisica, eterna immobile e immutabile,
quindi non vera. I pericoli erano molti; e Lucatello aveva una sola
certezza, la materia.
La prima serie di dipinti di Lucatello di cui si conservano alcuni
esemplari, e di altri si hanno riproduzioni alcune purtroppo solo
in bianco e nero, ha quasi sempre per soggetto le Zattere. Sono
cose del 47. Ventanni. Il mondo in tasca e il canale
della Giudecca davanti agli occhi. Il problema è avvertito
in maniera ancora confusa, ma già si intravvedono i lineamenti
che Virgilio Guidi metterà a fuoco tre anni dopo con una
chiarezza che forse andava al di là della consapevolezza
del giovane pittore: la sagacia di Guidi sapeva veder lontano. Bene.
In questi quadri del 47 non una linea del paesaggio è
uguale alla realtà. Per quei misteriosi canali che guidano
lesecuzione dellopera, quasi allinsaputa di se
stesso, Lucatello contrapponeva lautentico allesornativo,
al superfluo, al quotidiano. E subito leterno rischio, laccusa
di soggettivismo, di trasfigurazione del reale, secondo una terminologia
che sopravviveva dagli anni trenta, e che avrebbe potuto appagare
molti altri.
Per tutta la vita Albino si è sentito incompreso et pour
cause. Egli si muoveva nella direzione del concreto, del reale,
delloggettivo, ma quel mondo al quale egli si indirizzava
con assoluta ingenuità, con totale mancanza di idola, quel
mondo reale, che egli si riprometteva di svelare agli occhi di tutti
nella sua vera e oggettiva datità, poteva venir confuso col
suo mondo, con un suo personale e privato modo di vedere le cose.
Quelle Zattere, quella Giudecca potevano apparire tali quali apparivano
a lui e a lui soltanto: bastava che lui lo ammettesse; solo che
sarebbe stata una bugia; la smentita del significato del suo lavoro
e della sua ricerca. Invece quella era la realtà oggettiva,
la realtà tout court, non per lui soltanto, e tale doveva
risultare per tutti. Bisognava che gli altri aprissero gli occhi
e riconoscessero questo fatto.
E allora per non essere frainteso, con una notevole dose di umiltà,
e forse con una segreta paura di aver sbagliato, si dà a
riprodurre le cose come sono, o meglio come appaiono agli occhi
di tutti zunächst und zumeist, innanzitutto o per lo più,
il quotidiano. Ma smette quasi del tutto i colori; lavora in bianco
e nero: è la grande stagione del disegno di Lucatello. E
il tema è luomo; che lavora e che soffre; carbonai,
mondine, vecchie, vecchi. La realtà materiale è per
il momento abbandonata; lo sforzo di comprensione per luomo
è grande, arriva alla totale immedesimazione. Solo la più
scolastica delle convenzioni o la più superficiale delle
classificazioni può farci dire che queste opere sono realiste.
Se le definizioni ha senso che abbiano senso, parlerei di psicologismo,
o di umanitarismo.
Lucatello tornerà ancora al disegno. Rimarrà un elemento
costante, più perenne che ricorrente, del suo operare. Dopo
eventi traumatici, dopo il terremoto del Friuli, per esempio, che
soffrirà aspramente sulla sua pelle. Avrà distrutto
lo studio, di cui era fiero, e tanta parte della sua opera. Questo
evento tragico, cosmico, lo indurrà ancora di più
a una totale identificazione con gli altri, perché le sofferenze
degli altri coincidono con la sua sofferenza, il dolore degli altri
coincide col suo dolore, il danno subito dagli altri coincide col
danno subito da lui. E tornerà al disegno lo vedremo
più avanti e porterà i medesimi tratti formali,
il medesimo segno, la medesima tecnica, e fin quasi i medesimi soggetti,
le stesse fisionomie, gli stessi volti.
Nel corso della sua vita la sua pittura subirà evoluzioni
notevoli; i modi invece del suo disegno, del suo bianco e nero,
come si amava dire negli anni cinquanta, resteranno sostanzialmente
gli stessi: segni forti, spessi, contorni larghi che sfumano in
una breve ombra, delicate ragnatele di tracce sottili, apparentemente
costruttive, in realtà significative allusive; connessioni,
rapporti, nella trama che definisce i volti sembrano rappresentare
emblematicamente i pensieri che li attraversano, e del resto costruiscono
gli atteggiamenti, le espressioni, la dimensione psicologica che
si sovrappone si identifica con lampia consapevolezza concettuale
e con la istintiva esigenza pittorica.
Perché il suo disegno è sempre pittura. Perciò
anzi è giusto parlare di bianco e nero e non piuttosto di
disegno; in Lucatello è lideologia sottesa al suo disegno
che è diversa da quella della pittura e che con quella si
dialettizza; e i due momenti nel diversificarsi si chiariscono vicendevolmente
perché luno serve allaltro, come dalla unità
si ricava la molteplicità, dal perenne il transeunte, dallidentico
il diverso. Ecco perché a quella unità, a quella perennità,
a quella identità Lucatello fa ricorso dopo eventi gravi
e traumatici: cè una esigenza quasi metafisica o forse
più ancora religiosa, è la religione delluomo,
che crea un dio a sua propria immagine e somiglianza, e che ha diritto
a cittadinanza nel gran mar dellessere, perché anchesso
impastato di creta: ma poi su quella creta interviene per possederla
e adattarla a sè: e da ciò nasce la speranza, e la
illusione e la delusione.
Questo modo però aveva per Albino un altissimo significato.
Costituiva una esplorazione dellaldiqua del muro, che dava
maggior risalto al problema della realtà esterna, quella
materialità nella quale si assommavano ormai ben tre dimensioni
della sua problematica: la materia come realtà, e questo
lo accomunava ai realisti correnti; la datità materica del
quadro, e questo poteva confonderlo, e fu alla base di confusioni
dei critici, con i materici; la dimensione ideologico storica del
materialismo dialettico, nella quale scopre la condizione più
corretta della sua pittura, che riassume in sè con piena
consapevolezza le due dimensioni precedenti.
I suoi tetti di Venezia, che prendeva a modelli di realtà
umana dal suo studio di Palazzo Carminati rivelano una prima conferma
a questa nuova sicurezza, che luce, colore e materia possono essere
una sola cosa.
Goethe contrapposto a Newton, la dialettica che si contrappone allintelletto:
Io avevo capito scriveva Goethe nei Materiali per la
storia del/a teoria dei colori che bisogna avvicinarsi ai
colori come fenomeni fisici, in primo luogo dalla parte della natura,
se si vuole apprendere qualche cosa su di loro in riguardo allarte.
Non si parlava di Goethe nelle interminabili discussioni di quegli
anni: ma nella lucida mente di Albino si faceva strada qualcosa
di più di una intuizione, una idea: lerrore del realismo
socialista (un errore tra virgolette, con profonde e tragiche radici
storiche) era la perdita di contatto con la materia, e lacquisizione
di interessi puramente sociologici, che anteponevano al fare dellarte
la politica, la pedagogia, la propaganda. Col senno di poi, rileggendo
un vecchio saggio di Armanda e Roberto Guiducci su Plechanov, vien
fatto di rilevare come intuitivamente Albino Lucatello veniva contrapponendo
nel concreto farsi della sua pittura alle insistenze dello zdanovismo
ancora inesausto una concezione materialisticodialettica che
consente ampi spazi alla sua libertà.
A tanta distanza di tempo mi riesce difficile determinare a quale
livello di approfondimento Albino Lucatello portava questa problematica,
ma certamente egli si era formato con notevole soddisfazione il
convincimento che era possibile restare nellambito di una
corretta concezione marxista pur rifiutando la prassi del realismo
socialista di marca zdanoviana e sviluppando un approfondimento
delle concezioni di Engels formulate nellAntiDüring
e soprattutto nella Dialettica della natura; che poi sono concezioni
ampiamente accolte da Stalin, ma non nel campo dellestetica,
sibbene in quello della gnoseologia, e più in generale in
quello che potremmo dire della ontologia marxista.
Nel campo dellestetica la ragion di stato voleva che si imponesse
la rozza logica della pedagogia e della propaganda. Cera quindi
in Lucatello una consapevolezza, una sorta di Kunstwollen, che presiedeva
alle sue scelte, e che si legittima tanto più, in quanto
se la sua soluzione comportava scelte indubbiamente originali a
livello di motivazione e di esecuzione, il problema generale era
il problema che in quegli anni stava venendo a maturazione. Il 5
e 6 luglio 1959, a Roma presso lIstituto Gramsci, si era tenuto
un importante dibattito sul tema Avanguardia e decadentismo, e Il
Contemporaneo di ottobrenovembre ne riportava gli atti.
Io credo che non si sia mai sottolineata a sufficienza limportanza
storica di quel convegno e in particolare della relazione introduttiva
di Mario De Micheli. Va detto non di passata che a quel convegno
parteciparono fra gli altri uomini come Galvano della Volpe e Carlo
Sali nari, il primo dei quali doveva avere già compiuto la
Critica del gusto e il secondo Miti e coscienza del decadentismo
italiano, opere che uscirono entrambe nel 60 e segnarono un
momento fondamentale nella storia dellestetica e della critica
marxista in Italia. Dallesame degli interventi emergono, accanto
a notevoli episodi di tartufismo, le istanze di base di una certa
intellettualità alle prese con la ormai insostenibile separazione
tra i moduli stantii del realismo e il cammino storico dellarte
ormai percorso in Italia e negli altri paesi occidentali. Il quadro
generale rimane però quello di natura politica e sociale:
la riabilitazione sia pure cauta e parziale della avanguardia avviene
più che altro in termini di concessione e di riconoscimento
della positività di alcune opere e di alcuni autori. Diciamo
che i progressi, se così li vogliamo chiamare, si registrarono
a livello critico (di critica storica e talvolta di critica valutativa),
non a livello di approfondimento della problematica estetica; e
ciò favorì indubbiamente le manovre di retroguardia
dei conservatori irriducibilmente legati ai modelli del realismo.
A Lucatello non rimase che proseguire per la sua strada, che potremmo
sbrigativamente definire del materialismo dialettico. Egli viveva
allora la sua grande stagione dei Paesaggi del Delta, preceduta
e preparata da quella degli Orti di Portosecco e San Piero in Volta.
Lì veramente ritroviamo il senso cosmico che anima le parole
di Engels nella Dialettica della natura quando parla della natura
intera, dalle sue particelle infime fino ai corpi più grandi,
dal granellino di sabbia sino al sole, dal protista [la cellula
vivente primitiva] fino alluomo che si trova in un processo
eterno di nascita e di distruzione.
I colori si ispessiscono a dismisura, il paesaggio si incurva, la
grana del dipinto si fa porosa a dichiarare la propria materialità.
Lambito del paesaggio è per lo più ampio proprio
per sottolineare suggestioni cosmiche, la terra convessa e
sudata scrissi allora sembra vista da uno sputnik
trionfante; ma al tempo stesso, la ampiezza di questa dimensione
propone la sua condizione di dettaglio di una realtà incomparabilmente
più ampia; le linee della struttura compositiva assumono
quasi sempre un andamento centrifugo, quando il quadro ha un centro,
e questo però avviene quasi sempre. Per lo più in
Lucatello il quadro (e questo accadrà anche in seguito) è
un punto di partenza; sono pochi i quadri senza centro. Quella che
salta completamente è la chiusura, il recinto, la periferia;
il quadro semmai talvolta appare tutto centro, un punto dilatato,
ed esaminato analiticamente per mostrare la propria dissimmetria.
Più avanti con gli anni Lucatello con ostentazione quasi
polemica a volte recingerà il quadro per contenerlo e dargli
un assetto, per impedirgli di debordare; ma in quegli anni impetuosi
prevale il senso dellespansione quasi esplosiva; la materia
è avvertita dal suo di dentro, e la si sente fuggire via
allintorno in tutte le direzioni, ma è sempre saputa
come terra. E la terra il segno concreto e intuitivamente immediato
della materialità; una terra che per essere deliberatamente
indicata come la terra del Delta, quindi una terra intrisa di acqua,
acquista lindeterminatezza della hyle primordiale, e per essere
saputa come luogo di dolore e di sofferenza umana, ma anche come
luogo di lavoro sofferto, imposta il rapporto dialettico uomonatura
non in puri termini di rispecchiamento, ma in termini di intervento
diretto. Del resto la matericità delle sue forme e dei suoi
colori ben definiscono questo rapporto: il pittore lavora la materia
del quadro, la soggioga e talvolta ne è sconfitto, ed è
un rapporto contrastato, di lotta, perché la materia è
sorda al penetrar dellarte, come il contadino lotta con la
sua materia e il minatore con la sua.
Poi dun tratto in questo contesto di realtà sofferta,
sofferta in se stessa, come oggetto da riprodurre, e sofferta nel
rapporto con luomo, ma più ancora sofferta entro lanimo
dallartista dun tratto in questo contesto si libra una
teiera. La serie delle teiere. Per anni ho considerato questo tema
come un momento di ironia quasi dada, una sorta di immagine
stridente in contrasto con la sofferenza della materia a sottolineare
il distacco estremo dellartista e la vanità delle cose:
ma questo discorso non mi quadrava: poteva essere una piega del
carattere di Albino, ma una piega tenue; ora una rilettura sistematica
della sua pittura, la visione sequenziale delle sue opere, la rimeditazione
del suo pensiero e dei suoi intendimenti, mi inducono a una interpretazione
che pur non smentendo del tutto la prima idea la rende però
più consona al contesto: le teiere si inseriscono nella serie
delle sue opere con una precisa funzione che è la rappresentazione
dellatto umano, al limite la rappresentazione della tecnica,
persino, se si vuole dellindustria; e su questa cè
irrisione; una irrisione pacata, sfumata e meditata, però
cè: il mondo delluomo è disturbante rispetto
alla materialità della natura, disturbante perché
sovrimpresso, in ultima istanza estraneo, anche se imponente gigantesco,
quasi sempre in primo piano a coprire lo sguardo e a nascondere
il paesaggio e le sue possibilità. E lo stesso pesante linearismo
dei contorni, che in qualche modo si può ricondurre alla
condizione del disegno (e nel disegno si è visto
Lucatello studiava il mondo delluomo) potrebbe confermare
questa interpretazione.
E questa interpretazione, se è vera, conferma a sua volta
unaltra cosa, che arrivato a questo punto culminante della
sua carriera Albino Lucatello avverte lesigenza di andare
direttamente al cuore delle cose. Lo stesso materialismo dialettico,
animato fino ad allora parimenti dal senso della materialità
non meno che dallaccorta consapevolezza della dialetticità,
sembra non soddisfarlo più: se dialettica vuol dire mediazione,
da questo punto in avanti par di vedere sempre più pressante
e sbrigativa lesigenza impellente della immediatezza.
La serietà della sua elaborazione intellettuale lo ha condotto
a questo, ed allora sembra logico e coerente che questa Venezia
fatta tutta dagli uomini, protetta e difesa nei secoli dai Savi
alle acque contro le insidie della natura, esempio tipico della
dialettica uomonatura, questa gigantesca teiera
che irride persino a se stessa nella sua decrepita saviezza, gli
diventi irritante. Eppure gli era stata prodiga di riconoscimenti,
lo aveva condotto alle più grandi soddisfazioni che un artista
può chiedere alla capitale dellarte, ma tutto questo
non gli serviva. Il Friuli per lui non sarà mai un esilio,
sarà la sua realtà, la sua natura, quasi una sorta
di liquido amniotico.
E non gli importerà più niente della sua carriera.
Sarà tutto e solo se stesso; mentre prima era se stesso e
la realtà, se stesso e la pittura, se stesso e il suo pensiero,
se stesso (ahi!) e la cultura.
Naturalmente non sarà sempre e solo se stesso, perché
i conti con la realtà, la cultura, il pensiero, li farà
ancora, ma sarà sempre lui a imporre le regole del gioco
al pensiero, alla cultura e soprattutto alla natura, con la quale
arriverà a momenti di immedesimazione panica. E, naturalmente
ancora, non mi pare sia il caso di pensare a una crisi individuale:
sorta di sazietà di chi dopo aver assaporato il successo
ne avverte linconsistenza e si ritira nelle delizie degli
orti suburbani. Non metterebbe conto di continuare a parlare di
Albino Lucatello.
Non esisterebbe un periodo friulano (anzi dei periodi friulani).
Quello che può forse stupire, ma non deve poi in ultima analisi
stupire, è la stessa concomitanza di questa evoluzione personale
di Lucatello con il travaglio della pittura italiana, ma in certo
modo anche non solo italiana.
Con i primi anni sessanta il travaglioso contrasto tra figurativo
e nonfigurativo è concluso. Gli artisti di poco più
giovani di Lucatello non lo avvertono neppur più come contrasto,
né intendono più dare significato polemico alle loro
scelte. Uomini come Lucatello lo avevano affrontato con fastidio
e insofferenza, come un elemento disturbante e distraente, di cui
bisognava occuparsi perché te lo imponevano la stampa i critici
i colleghi i compagni il partito. Ma il partito ora mandava tutti
a casa: una specie di otto settembre. Chi non fa più gli
operai in tuta blu sotto il sole non è più un traditore.
Libertà, perdio, libertà. Ma non è di questa
che aveva bisogno Albino, che se lera sempre imposta come
dovere morale, quasi kantiano, la libertà; il problema rimaneva
sempre quello della legittimità delle scelte; perché,
se non faccio i carbonai (che però Albino Lucatello continua
a fare fino alla fine, anche se non sono più carbonai, ma
vecchie, terremotati, ecc.), devo sapere perché faccio unaltra
cosa. E laltra cosa Albino laveva trovata con sempre
più convinzione fin da quando faceva i tetti dallalto
dello studio di Palazzo Carminati, da quando faceva gli orti di
Portosecco e gli splendidi paesaggi del Delta. Con qualche teiera
che era come unombra, o un incubo, o uno scherzo.
Il Friuli quindi da un lato è la logica prosecuzione di questa
strada maestra della sua pittura. Nessuna brusca sterzata, nessuna
contraddizione evidente; ma sbaglierebbe però chi da queste
mie parole ricavasse limpressione che nel 1960 Albino Lucatello
ha già detto tutto, e ha già segnato il suo futuro;
dopo di che non resta che ripetersi. Non è così perché
pur nella continuità della evoluzione alla fine noi troviamo
delle opere che sono profondamente diverse da quelle dellultimo
periodo veneziano, e dei primi anni friulani. E poi non si può
nemmeno dire che levoluzione anche se così rivoluzionaria
sia stata tuttavia lenta e graduale; neppur questo è vero,
ci sono stati strappi e ritorni, ripensamenti e pentimenti: basta
osservare le tipologie, i motivi, dei suoi quadri, che a tratti
come certi fiumi carsici scompaiono per anni e sembrano cessati
per sempre e poi riaffiorano e danno luogo a una stagione intensa
e magari finiscono per avere significati e contenuti completamente
diversi da quelli che avevano avuto anni prima. Più di venti
anni in Friuli sono lunghi; unaltra vita.
Ma bisogna mettere un po dordine in questa vicenda.
Lesperienza della serie del Delta viene subito posta in discussione
nellimpatto con lambiente friulano (qui quando si dice
ambiente si dice subito e solamente ambiente fisico); perché
si tratta di un paesaggio simile e diverso, che obbliga a ritocchi
e a riproposizioni. Certo questo non sarebbe accaduto ad una pittura
più grossolana, che si accontenta della riproduzione delle
fattezze esteriori della realtà; in Lucatello invece la scomposizione
del rapporto con la natura nelle sue articolazioni e lemergere
inarrestabile di un bisogno che sta vivendo più di immedesimazione
che di possesso, ma insomma è questo e quello, con la natura,
porta a delle mutazioni nella sua pittura che si possono assimilare
alle mutazioni genetiche di certe specie. Ci sono dei cambiamenti
che possono apparire casuali, ma sono comunque molto significativi,
cambia per esempio la tonalità del verde, i rossi assumono
spesso una funzione balenante, ora di promessa ora di ammonimento,
il nero spesso è più una funzione che un oggetto.
Questo per quanto concerne levoluzione della tipologia che
in qualche modo prosegue la linea dei paesaggi del Delta.
Accanto a questa si va facendo strada unaltra linea di pittura,
che, pur presentando delle analogie con questa, non ha però
a mio avviso molto da spartire, pur nella continuità: si
tratta dei Tagliamenti; nel contatto intenso e quotidiano con la
realtà di questo fiume, delle sue sponde dei suoi greti,
Lucatello scopre una dimensione della realtà particolarmente
suggestiva, che consiste nella indagine a distanza ravvicinata;
con la curiosità del geologo e la ricerca formale della inquadratura
suggestiva Lucatello compone visioni dove la natura esprime una
sua materialità non più cosmica come nelle Terre del
Delta, ma particolare, quasi microcosmica; il sasso il terriccio
lerba il paletto sono visti senza contesto, chiamati a far
da contesto a se stessi; il quadro è aperto, senza confini,
rinvia apertamente ad altro, la composizione è fatta di continui
eccetera. La natura è vista come illimitata nel momento in
cui il particolare diventa qualcosa di simile a quello che era in
poesia il correlativo oggettivo di Eliot. Lallusione
è seriale, rinvia a ciò che sta accanto, non a ciò
che sta dietro allimmagine. Latteggiamento è
assolutamente fenomenologico.
In queste opere però proprio per queste esigenze rappresentative
e allusive si fa strada una particolare esigenza compositiva. Un
momento fa ho parlato di inquadratura; linquadratura è
la forma simbolica; ci sono insomma delle esigenze di
natura formale che cominciano ad affacciarsi nella pittura di Lucatello,
la convinzione che attraverso la composizione può passare
il messaggio, che lanalisi della materia può concretarsi
anche attraverso un discorso di organizzazione della forma.
È qui che si alternano quadri col centro e quadri privi di
centro, quadri recintati da un forte tratto di colore, per lo più
su un angolo, più spesso langolo superiore destro,
e quadri aperti a dimensione centrifuga, esplosiva. Da questo momento
in poi, alla fine degli anni sessanta, la ricerca formale, vissuta
in una dimensione sperimentale, accompagnerà fino alla fine
lopera di Albino Lucatello alternandosi o affiancandosi a
momenti di tematiche più definite. Per esempio la riapparizione
dei volti umani carichi di contenuti espressivi verrà talvolta
messa al servizio di questa ricerca, mentre altre volte resterà
solidamente collegata alla definizione progressiva dei connotati
della realtà materiale.
Ogni volta certe condizioni sembrano rimesse in discussione ed ogni
volta sembrano definitivamente acquisite; in questo andare e venire
mi pare ci sia più entusiasmo che tormento, più gioia
creativa che angoscia, ma forse è più giusto dire
che a livello individuale cè la gioia del fare e del
ricercare in mezzo ad una natura che lo entusiasma, a un ambiente,
questa volta anche umano, che lo avvince; su un piano più
generale che coinvolge la responsabilità dellintellettuale
cè il senso di una angoscia collettiva, di unansia
di insoddisfazione, di un bisogno di naturalità perduta che
limmedesimazione con la natura appaga solo in parte, perché
si riconosce come momento particolare, felice nella sua particolarità.
Ecco perché non cè direi contraddizione, fra
la gioia del creare e del vivere, la gioia del provare questa magica
esperienza, esaltante, friulana, e il farsi carico dei dolori della
pittura italiana, e delle contraddizioni della civiltà contemporanea.Altra
tipologia, gli ostacoli: essi per esempio costituiscono la rappresentazione
grafica delle difficoltà, la difficoltà dellimpiegato
e del fisico nucleare, la difficoltà dello scolaro, della
casalinga e dellartista, perché no?, del pittore, anche
di Albino Lucatello, che doveva andare a scuola a far lezione, doveva
procurarsi i colori per i quadri, doveva trovarsi uno studio confacente
alle sue esigenze, doveva, persino, fare i quadri; cioè arriviamo
al limite estremo, dove lesigenza pratica già trasborda
sul momento creativo; ma tutti questi si chiamano ostacoli, perché
nel nostro linguaggio ormai per lo più lostacolo è
quello che si supera; al di là della forma che indica espressamente
lo sbarramento (ma mai radicale, sempre slabbrato ai margini per
consentire laggiramento), non vi è nulla di angoscioso,
nulla di avvertito come incubo, come sofferenza insopprimibile;
cè posto se non per la gioia per lo meno per la normalità
del vivere. Langoscia è sotto, è esistenziale,
è il peccato originale, la comune condizione di esistere;
a volte esorcizzata a volte stanata a volte dissimulata.
La ricerca formale, che ad un certo momento confluisce dal filone
che abbiamo detto sperimentale allasse centrale della sua
pittura, dando luogo agli interessanti monocromi, rappresenta proprio
il modo più canonico per dissimularla: è la logica
perenne del classicismo, ma altrove langoscia è stanata;
la serie dei Musi, che prende il nome da queste montagne che Albino
avvertiva come lirraggiungibile a portata di mano, dà
la precisa connotazione dei caratteri fondamentali di questa inquietudine;
ma in genere tutta la produzione monocromatica (e questo si può
dire anche per alcuni paesaggi del Delta, non va riferito solo ai
monocromi più compassati e classici) mediante
quegli accenni contenuti e discreti indica linquietudine più
come condizione che come esperienza.
In questa vicenda che abbiamo cercato di descrivere con sufficiente
fedeltà, ma anche con la consapevolezza che si tratta pur
sempre di una chiave di lettura più che di una immagine esaustiva
di una realtà così complessa come lopera intera
di un pittore, non mancano aspetti più specificamente professionali,
un dialogare assiduo con la pittura europea, un riprendere e ammonire,
un polemizzare con determinate scelte ed un ironizzare su altre.
E laspetto forse più rigoroso dellopera di Lucatello,
che pur nellisolamento voluto e felice del Friuli continua
a vedere lopera degli altri a giudicarla e a valutarla. La
polemica con le mode è costante, ma al tempo stesso vi è
la consapevolezza che la fedeltà al proprio tempo è
una ragione morale nella vita di un artista.
E celebre, e direi ineccepibile dal punto di vista storicocritico,
laffermazione di Georges Mathieu che in fondo Kandinsky
e Mondrian non hanno fatto altro che tradurre nel nonfigurativo
lestetica del Rinascimento, mentre invece dopo di loro
si è posto il problema, per dirla con Gillo Dorfles, di avere
invece di un significato che precorre linstaurarsi del
segno, un segno che anticipa il significato. Il problema della
pittura di Albino Lucatello, dopo il superamento della falsa, ma
storicamente incidente, antinomia di figurativo e nonfigurativo,
è stato proprio questo, da un lato il determinante condizionamento
storico di una tradizione rinascimentale che, come sè
detto sopra, faceva per lui della composizione, della inquadratura,
la forma simbolica, dallaltro lesigenza
di andare oltre questa condizione riproducendo le tipologie dellarte
informale, talvolta persino del tachisme. Il dialogo con queste
tendenze, da Wols a Mathieu, da Hartung a Fautrier, da Tapies a
Rothko è stato serrato soprattutto nel periodo friulano.
Non avrei dubbi nel respingere qualsiasi ipotesi di aggregazione
di Lucatello a queste tendenze, al di là di apparenti somiglianze
a livello puramente esteriore. Giova il riscontro di alcune tipologie;
gli Ostacoli per esempio potrebbero richiamare alcune tendenze di
Rothko, e tuttavia presentano una differenza essenziale, che riconduce
Lucatello a una condizione di spazio indubbiamente rinascimentale:
il quadro ha profondità, si possono agevolmente distinguere
un primo piano e uno sfondo, se gli ostacoli non fossero in primo
piano, e non consentissero laggiramento, addirittura, di cui
sè detto prima, non sarebbero ostacoli; si veda il
confronto con Mathieu; in Mathieu per lo più lopera
ha un centro, o quanto meno un punto di partenza, che in ogni caso
va situato per lo più al centro della tela, e da esso il
discorso pittorico si diparte verso sinistra e verso destra, con
echi e riverberi sopra e sotto; nei quadri di Lucatello che possono
richiamare alla memoria alcune movenze della pittura di Mathieu
la disposizione è completamente diversa: il centro appare
per lo più scavato, quasi una sorta di caverna, che riproduce
la concezione prospettica rinascimentale rinviando spesso addirittura
a un al di là del quadro, dietro di esso che è anche
un prima di esso, un altro mondo nella profondità della materia.
Con questi due pittori Rothko e Mathieu, direi che il dialogo conduce
ad esiti negativi, un rovesciamento pressoché totale delle
loro istanze esteticocritiche, un ripristino della dimensione
copernicana che non dimentica mai che la luce si trasporta in uno
spazio tridimensionale e che in esso la luce è in definitiva
il veicolo del colore. Da questo punto di vista lesperienza
giovanile che abbiamo definito goethiana, per quanto concerne il
rapporto materialucecolore, rimane uno degli elementi
più stabili nella pittura complessa e mutevole di Lucatello.
Ogni volta che egli pratica lo sperimentalismo, ed è laspetto
più significativo e più difficile da esplorarsi, egli
si butta al di là di questa realtà materialistica,
copernicana, goethiana, ma per lo più rientra alla base,
riconducendo, sforzando le esperienze altrui entro quei termini,
entro quella solida cornice concettuale che è stato e continua
a rimanere il suo materialismo; quasi a dimostrare beffardamente
che il fondamentale problema dellinformale è pure sempre
il problema della forma e antinomicamente che se ad alcunché
spetta il primato logico e gnoseologico dellinformale questo
alcunché è la materia, hyle.
È forse per questo che credo di scoprire invece una sorta
di devozione nel rapportarsi di Lucatello alla pittura di Wols,
la cui disarmonia tra il dentro e il fuori, per rifarsi alla sintetica
indicazione di Argan, riproduce in qualche modo la condizione centrale
della esperienza friulana di Lucatello, divisa fra la gioia personale
del creare e la consapevolezza della angoscia esistenziale che accomuna
gli uomini. Quando Lucatello fa i conti con Wols, e avviene però
di rado, quasi per una sorta di soggezione, allora il suo sperimentalismo
non si lascia riassorbire tanto facilmente nei canoni dellestetica
rinascimentale, viene meno qualsiasi lusinga prospettica, il filo
del quadro saddipana in un tormento di colori senza luce e
senza trasparenze. Linerzia della materia diventa totale,
come se si separasse dalla energia, che rimane rappresentata graficamente
da linee di forza. E non sapremo mai se questi momenti costituiscono
le cadute o i trionfi dellarte di Albino, per la loro radicale
consequenzialità, che costituisce la sconfitta di una poetica,
che da Piero della Francesca in avanti rappresentava ancora il luogo
del suo mondo, ma al tempo stesso la posizione di una nuova poetica
che il suo sperimentalismo ricercava, tentava di costituire; e tuttavia
egli temeva credo fortissimamente per la distruzione
di quel mondo che questa nuova poetica comportava.
Questi i termini fondamentali, certo esposti schematicamente, del
rapporto che Lucatello aveva instaurato con la pittura, e che ci
danno ragione di alcuni suoi precisi convincimenti. Egli parlava
di storico inganno, riferendosi alla storia dellarte,
che non è mai stata scritta, perché si è
cercato là dove cera altra cosa dellarte
(In occasione della personale alla Galleria Falaschi di Passariano,
Codroipo, Gennaio 1979); e non è un caso che usasse il termine
inganno", che è lo stesso impiegato da Montale quando
definisce inganno consueto la rappresentazione della
realtà materiale, alberi, case, colli. Non la
realtà materiale invece per Albino Lucatello è un
inganno, ma la storia: lo storicismo è una favola,
la mente umana è uno spazio che ha dentro il passato
e il futuro. Non si tratta di affermazioni improvvisate. Ci
sono addentellati precisi con certe posizioni della cultura attuale.
E non è importante chiedersi quanto Albino Lucatello ne sapesse
a livello di intuizione storica e quanto per lettura diretta. Voglio
citare un passo di Hans Georg Gadamer, in Verità e metodo,
che sicuramente Albino Lucatello non poteva conoscere nel 1979,
perché il libro è uscito in edizione italiana nel
1983, così si evitano problemi spuri, come è quello
dellaccertamento delle sue letture. Il passo dice: Un
pensiero autenticamente storico deve essere consapevole anche della
propria storicità. Solo così esso non si ridurrà
a inseguire il fantasma di un oggetto storico quello che
sarebbe oggetto di una ricerca che si sviluppa progressivamente
come quella della scienza naturale ma sarà un modo
di riconoscere ciò che è altro da sè, riconoscendo
così, con laltro, se stesso (p. 350). Direi che
questo coincide con latteggiamento di Lucatello di fronte
al problema della storia, atteggiamento che i suoi quadri esprimono
e le sue parole confermano. In effetti il suo mestiere non è
quello dello storico, perciò rifiuta come favola
e Gadamer parla di fantasma ed è la stessa
cosa quello che non è arte, e cioè loggetto
della storia dellarte, però è consapevole della
propria storicità. Mentre gli storici dellarte ricercano
altra cosa dellarte, il suo rapporto con la tradizione
è diverso, è vissuto (e abbiamo visto il suo rapporto
con la concezione rinascimentale dello spazio): e scrive ancora
in quella pagina indimenticabile: il tempo senza cronologia
e senza cronistoria è dentro le cose e dentro lo spazio.
Così, luomo è memoria, nuova e antica.
Ecco perché nel momento in cui rifiuta, o sembra rifiutare,
la storia, diventa consapevole della propria storicità,
una storicità che egli vive intensamente e attivamente. Loggetto
di questo senso della storia, che si configura come esigenza di
fare i conti con essa, e non già di conoscerla oggettivamente,
è proprio quella che Gadamer (rimango nellambito di
questo pensatore perché mi pare su questa problematica il
più vicino al significato dellopera di Lucatello e
la garanzia della fedeltà di lui alla cultura di questi anni)
chiama Wirkungsgeschichte, storia degli effetti o delle determinazioni,
e fra queste determinazioni vi è quella di riconoscere
ciò che è altro da sè, riconoscendo così,
con laltro, se stesso, che è alla base della
dialettica fra disegno e pittura che sè vista sopra.
In questo senso Lucatello in Friuli lungi dallestraniarsi
dal dibattito della cultura europea ha intessuto una fitta trama
di discorsi e di valutazioni, usando della propria opera di pittore
non solo come di uno strumento operativo (o creativo, se piace di
più), ma soprattutto come di uno strumento critico.
Importa rimuovere lipotesi che nel sereno esilio del Friuli
Lucatello nel rapporto diretto con la realtà materiale abbia
pensato solo a se stesso. Resta vero tuttavia che, nella totale
indipendenza che ha realizzato da tutti i condizionamenti della
pittura ufficiale, ha potuto organizzare un discorso secondo le
sue regole, accettando o respingendo le diverse suggestioni secondo
una logica con la quale aveva costruito nei fervidi anni veneziani
una sorta di tavola di verificazione. Allora gli effetti e le determinazioni
delle esperienze della pittura europea non si distinguono dagli
effetti e dalle determinazioni della sua esperienza personale. Ogni
suo quadro costruisce le premesse dei successivi, ma si innesta
e si relaziona in tutte le sue possibili e non sempre apparenti
divagazioni. La varietà delle tipologie, comprese quelle
che rappresentano laspetto difficile del suo sperimentalismo,
trovano la riduzione allunità in questa considerazione
delleffetto di ciascuna opera, cioè nel suo riconoscerne
la storicità. I diversi tipi diventano serie, successioni
che non si possono considerare secondo la scansione annalistica,
perché "lo storicismo così inteso
è una favola", ma secondo una scansione formale: questo
spiega i ritorni, le riprese di moduli espressivi e stilistici a
volte abbandonati o trascurati per anni. Che il Friuli fosse la
sua seconda patria non è più allora un affettuoso
modo di dire; per quel tanto di genetico che è implicito
nel termine patria, al di là di ogni considerazione meccanica,
positivistica del rapporto uomoambiente, il Friuli rappresenta
non tanto il luogo quanto il tempo in cui Lucatello ha svolto fino
in fondo il concetto che lopera è in situazione come
lautore è in situazione, e che non si può ridurre
lopera ad un semplice effetto del suo autore, perché
essa va vista come realtà che produce effetti nel momento
in cui acquisisce le sue determinazioni.
Questo credo sia anche il significato di questa mostra. Che non
deve essere un omaggio ad Albino Lucatello; come tale egli lo avrebbe
disdegnato; ma uno strumento di lavoro, una verifica degli effetti
della sua opera. |
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LUCATELLO
Saggio critico di Bruno Rosada, in occasione della mostra retrospettiva
organizzata dal Comune di Venezia nelle sale dellOpera Bevilacqua
La Masa (22 marzo-13 aprile 1986)
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