Da Tarcento
la strada risale adagio tra lerba che il sole ha scaldato.
Davanti a Billerio scivolano in una lontananza di acque, rincorse
da acacie e ontani, terre annerite di umori, gelsi e vigneti dorati.
Lorizzonte è una grande finestra di luce che fonde
limmensa pianura dove lunico ostacolo è laria.
Il tetto azzurro del cielo sembra qua e là sostenuto da maestosi
castagni e le montagne di antica pazienza, alle spalle, sono fredde
di vento.
Non troppo lontano il Tagliamento è ampio colore di polvere
bianca e alle sue rive di fanghi induriti appoggiano radici e boscaglie
di verde.
La natura composita del Friuli, inquieta e dolce a un tempo, ha
un sussulto di sangue e sostituisce in fretta negli occhi e nel
cuore di Lucatello il sussurro dei pigri canali dove remota sonnecchia
Venezia.
La sua acuta sensibilità calata in questo mondo meno affollato
e diverso avverte una sollecitazione nuova, una voce più
aspra e più netta che sale a cercargli le vene.
In questa terra non sempre dolce né buona, tra le povere
case di pietra, non ci sono ricordi ma solo un risveglio di vita:
basta quel po di silenzio e ogni cosa si ferma al suo luogo
reale.
Con meraviglioso stupore nelle cose che vede riconosce il mondo
della sua precedente esistenza, lansia inesausta di contatti
e sapori.
È come se le sue giovanili intuizioni e la storia in cui
vuol rientrare riapparissero in quei muri di pietra o stesi nei
prati, chiesti in prestito da una natura ritrovata con la sorpresa
di un vecchio compagno.
Tutto coincide straordinariamente al suo personale linguaggio, alla
scelta culturale e di vita che aveva cresciuto e inseguito poco
più che ragazzo nellamata e disincantata Venezia dei
popolari campielli e delle calli affollate doverano vivi i
carbonai ed i tetti e induriva la voce dei delta grumosi.
Certo cera stato il Polesine e la dimensione spaziale più
netta ammassata ai confini di un cielo bruciato.
Là aveva lucidamente saputo quel bisogno di terra che gli
mordeva nel sangue e che ora il Friuli gli rimanda stupendo in giorni
di sole.
Ma doveva a quella Venezia la sua crescita culturale, la sua condizione
di pittore, le sue fughe in avanti e lortografia irrompente
Respirandola aveva ordinato nella coscienza la lezione della storia
e dellarte ed era giunto al suo limite.
Lavorando duro sera scontrato con i rifiuti della vecchia
scuola ma aveva anche vissuto i momenti chiari della semplice gioia
di avere capito.
Ormai quando levava lo sguardo a quelle architetture preziose dove
aveva imparato bambino a leggere la storia e la grande pittura quellidillio
di bianchi ricami, quelle tante finestre, gli parevano appena occhi
spenti che dormono. Giovanissimo aveva ben presto capito con unansia
chera ancora sopravvivenza romantica comera da decidere
a nuovo la storia e lingenuo, inutile, sforzo di rifare a
parole la vita.
E aveva scelto.
Le calli fresche di mezza mattina piene di voci e i carbonai che
avanzavano neri, senza ritegno, nel sole tornando a S. Vio da qualche
fatica.
Si fermava con loro che lo guardavano fermi a bere dalloste,
a parlare, giocare, a farne i ritratti.
Quella era Venezia.
Con le donne e i vecchi che conoscevano il tempo e dove la vita
aveva la consistenza speciale che sui volti era popolare allegria.
Lucatello in quegli anni lontani aveva proposto a suo destino di
pittore quei corpi e quei volti cercando la vita tra le scorie di
fumo della cultura.
Il lavoro gettava ombre per strada e sui segni del viso la fatica
aveva occhi pesanti.
Contro il vuoto delle astratte parole e la tradizione ammuffita
Lucatello aveva interposto come una grande parete illuminata di
spazio la realtà delle loro figure.
Il suo carbonaio non si accorgeva della gente che andava e veniva,
dei palazzi e dellacqua che trascorreva lenta.
Era solo. Attaccato al selciato, si stringeva le mani. I barconi
erano andati e venuti e lui poteva sedersi nel sole e riceverlo
tiepido addosso. Avvampava la camicia di tela rimboccata alle braccia
e gli occhi sicuri delluomo chini a fissare la terra.
Sopra il mezzogiorno era azzurro e intorno Venezia deserta di marmi.
Fra poco con qualche compagno dai muscoli grossi avrebbe ripreso
il lavoro sostenendo il suo sacco che intontiva la schiena ma alla
sera, ridendo, avrebbe avuto la forza di giocare al braccio di ferro.
Tutto avveniva in un movimento di segni deciso che si faceva colore.
Il carboncino sfumava da dentro come il tepore del sangue e il tratto
spezzato si ricomponeva crescendo ed esisteva nel corpo uno spazio
più grande.
Sulla carta secca come il sudore asciugato nel sole quei segni tracciati
con foga avevano la stessa arsura che dava il carbone.
Dentro anche sbocciava la luce e lodore salmastro del mare.
Senza rabbia su quelle figure e senza rassegnazione trascorrevano
le ragioni delluomo e si sentiva la vastità della terra
e lampio respiro del mondo. Nei disegni Lucatello dipingeva
il pensiero.
Quellesistenza sospesa tra un sacco di carbone dopo tanti
altri sacchi e che accettava il lavoro come un duro destino delluomo
si era fatta strumento insistito che lui aveva toccato per anni.
Era stata un sentore che aveva la giovane vita arretrando nel tempo
i gioielli dei marmi.
Qualcuno di quegli uomini anneriti nel volto andava e veniva fino
a tardi nel giorno per buttarsi alla fine al selciato, disteso sotto
il sole a dormire.
Lucatello aveva a lungo pensato che in quel dormire fiducioso allaperto
aveva in qualche modo incontrata la sua stessa sicurezza di vita.
Nel corpo assopito, che pensava sul braccio la fatica del giorno,
leggeva la cruda realtà e la semplice gioia di esistere che
poteva adattare al più ampio spazio del mondo.
Dalla chiesa barocca come un pallore smottava sulluomo una
luce di secoli stanchi ma dal di dentro unaltra luce più
vera e più sacra seccava il sudore e ingrandiva su piazze
e sestieri, sconfinando da universali lagune.
Era il momento a Venezia che le ideologie avevano investito ogni
voglia di nuovo.
Le teorie dellastratto trascorrevano la cultura affamata e
la tradizione appariva un silenzio di noia che dava sul vuoto.
Già allora Lucatello sapeva se stesso, il bisogno di dire
concreto e lansia di un centro in cui rinchiudere il mondo.
Così il carbonaio si era fatto categoria delluomo reale
nella storia reale e lidea della totalità della terra
gli faceva da sfondo.
Era stata una scelta che aveva vissuto sincera e diretta come si
fa con lamico e gli era bastata a capire come poteva rinascere
il vero.
Lucatello aveva sempre trovato compagni trovando se stesso.
Anche così sarebbero stati gli anni dopo in Friuli vivendo
amicizie con uomini semplici ma saldi e signori di se e che solo
a guardarli si sapeva la terra.
Anche nei loro racconti avrebbe ritrovato confuse e reali le speranze
del mondo e la comune esperienza teneramente intonata.
Quelli avrebbe dipinto dipingendo la terra.
Ma allora, in quel tempo remoto, cerano ancora i barconi che
scendevano adagio il canale sospinti e pesanti e i carbonai che
stringevano il loro giorno, dallalba, a quei sacchi.
Intorno il silenzio voluto della città e del cielo.
Altri giorni erano passati e un nuovo studio spalancava balconi
proprio a quel cielo taciuto.
Sotto, una Venezia dolce di tiepido sole si muoveva più lenta
e case basse di tegole secche cuocevano adagio alla luce. Anche
i rumori della vita nella gente che andava per strada giungevano
fiochi parlati dal vento.
Lucatello si era trovato stupito a fissare quel vuoto che si riempiva
di azzurro e quei tetti scoperti.
Nella loro popolare dignità la città copriva di vita
i suoi bianchi splendori e ogni cosa nel giorno pareva più
vera. Quel sentore perdurava stagnante nellaria per farsi
soggetto su cui riversare il pensiero.
Lucatello non guardava, toccava assorto quei tetti. Sotto le case
erano ferme piantate ai canali.
Perché lazzurro del cielo avesse un senso profondo
bisognava affidare ai volumi radici ben salde del vissuto delluomo
e dare in caldi colori lallegrezza di risa e voci remote che,
in quella Venezia illesa tra i secoli, rinforzava di luce.
Dipingendo avrebbe potuto discutere della calma, del vento umidiccio,
del tepore delle camere sfatte e deserte al mattino.
Quei tetti posseduti in un giorno tranquillo gli si erano fatti
impegno sonoro, forma, volume, odore di vita per giungere al vero.
Già il loro spazio allargato proponeva ai colori il linguaggio
aperto di un primo paesaggio che fino ai Musi non avrebbe trovato
più fine.
Dallo studio, lassù, gli si era mostrato come un orizzonte
vibrante di tegole che si ponevano immobili e riempivano il cielo
Al di sotto la laguna era stesa anche lei e sfumava nel nulla.
Sui tetti di terra bruciata cadeva la luce distratta di colori di
voglie e rimbalzando diversa sembrava giocare al chiarore del giorno.
Trascorrendo in una sabbia rosata accendeva il mattone di un rosso
leggero e simpolverava di sole ingiallito nel caldo dellocra.
Col bianco riempiva i campielli di una macchia più fresca
e più nuda che ne schiariva il ricordo.
Lazzurro stendeva laltezza del cielo e anneriva di un
segno i canali, umido e dolce come lombra destate.
Lucatello sentiva in quelle voci festose che parevano nuvole sode
e colorate nel cielo i segni della città e il brusio della
vita.
In quella prospettiva allargata innalzava volumi che altalenavano
sul piano del mare a tagliarne il profilo di luce. Così aveva
voluto Venezia. Viva fra i disaccordi della sua prospettiva.
Luminosa, segreta, sotto quei tetti e ogni colore addossato a raccontare
il tepore di vita nel solido azzurro del cielo. Ma ora è
unaltra estate ed altri i colori che sprofondati nellaria
scorrono la realtà del Friuli dove colline miste alle nubi
accerchiano il cielo.
I gialli sono ori leggeri di luce. Misti al vento gli azzurri ed
i verdi.
Tanti verdi!
Smeraldi nellerba che il sole ha scaldato e verdemarcio nel
fieno.
Verde vestito di grigio linverno con sapore di pioggia caduta.
La natura ha verdi misteri e persiste negli umori, annerita di verde,
dove il bosco intreccia le ombre.
Confinato sulle rive del Tagliamento anche il bianco si ferma a
sentire larsura del fiume e cè lo sbiancare del
cielo che dopo tanto pallore riavrà la sua vita in azzurro.
Il tramonto scuote di rosso la fine del giorno e si sfoga per vuoti
che sono finestre di fuoco.
Può anche accadere che un soffio più freddo spenga
luci e colori ma ristagna nel nero il sentore di vita.
Lucatello coglie gli urti, le mille voci, i brusii e la pena nascosta.
Nulla può disturbare i giorni del mondo e il puro colore
basta a vestire ogni cosa.
Nel Friuli ha trovato una terra che infonde ogni giorno nel sangue
qualcosa di nuovo e uomini saldi che zappano le vigne destate
e quando hanno sete bevono vino.
Li incontra la sera in accorate osterie aperte su valli o in borghi
raccolti dove festeggiano rumorosi la sera.
Gli diventano amici.
Parlano e ascoltano con la soave saggezza che serve alla vita.
Sorridono, anche, negli occhi sicuri e hanno mani indurite e facce
mischiate di terra.
Lucatello sa bene che loro sono la terra. Basta uscire perché
la natura ha sempre un riflesso che ricorda il vecchio sudore e
rispecchia solido il corpo che batte di sangue.
Dentro e fuori ogni cosa esala lo stesso sapore e accade in silenzio.
Lucatello lo aveva sentito da sempre. Dalla lontana stagione dei
delta.
Ora, distaccato e diverso, nella realtà del Friuli senza
scuse o finzioni poetiche, quel tempo passato gli si fa terso nella
memoria.
Rivede in un ingiallimento feroce i giorni di Scardovari, gli argini
rotti, le piogge e le albe bruciate che gli avevano mutato i colori
del mondo.
Quella miseria spalmata come un fango sulla lama del cielo aveva
dato corpo al pensiero, gli aveva segnato definitivamente la strada
come un sussulto del sangue.
Più certa della storia è la vita e la realtà
che sale dal mondo è intessuta di umano!
Valeva la pena tornare ad ascoltare la voce del fiume e quel disfatto
sapore di terra e di sole.
Su una rantolante corriera era tornato e aveva rivisto i casolari
già vecchi al mattino, la bianca piazzetta, i canali e, lontano,
lumida luce del mare.
La lotta mesta e lunga della vita che il cuore balzava scoprendo
impregnava il suo corpo come il sudore le carni indurite sotto il
nero maligno dellafa. Non cera che guardare quel Polesine
affogato nel sole e possederne la verità prepotente che saliva
ogni giorno con la forza salita agli argini rotti.
Con uno stacco più netto gli era cresciuta la convinzione
dialettica con cui esprimere il mondo e lansia di contraddire
la sistemazione sintattica e con la natura dire delluomo.
Quella luce che si svenava nel fango e la terra stanca e oscura
già nel bianco mattino erano sapori di unumanità
inquieta e teneramente sgomenta dove poteva fissare il pensiero
e affondare, finalmente, radici.
Cera un sentore, uno scatto, nella dimensione spaziale chera
lo stesso delluomo solamente più netto e ingrandito
sul mondo.
E in questo accadere sera compiuta la materialità della
natura senza distinguere case né cielo ma dove pur sempre
restava il tepore che sa dosteria, di fuoco acceso al camino
e di parole arrochite nel giorno.
La natura posseduta in quella sola primavera lontana era diretto
realismo che colava limo slabbrato sullacqua dove pensierosi
si piegavano i corpi a coltivare gli atti del loro difficile giorno
che il cielo come una riga di freddo spegneva in disadorni sentori.
Nei quadri che aveva dipinto il bianco era un pallido vento che
avviliva e atterriva. Una luce di mattini gelati come un latte denso
dentro una cortina indurita, covata dallalba.
Sotto, la terra, una coltre corrosa da antichi sudori sfatti in
una luce dinferno che ammassava il suo nero come una notte
paurosa di vuoti dentro il cuore profondo.
Ogni casa, ogni campo, aveva il colore del sangue annerito raccolto
ai confini di un cielo bruciato.
Al fondo, più nudo e spossato, svaniva disteso il profilo
dellacqua a sostenere la terra in un buio percorso da brani
di nebbia.
Nella natura oscura di vecchio lavoro nera rabbia di pittura nel
petto.
Nero. Nero pieno, totale, senza scuse romantiche o di polveroso
mistero che non serviva a nessuno ma nera, storica, lingua per raccontare
la vita pagata giorno per giorno.
Il bianco e il nero. Due corpi diversi ciascuno sullaltro
che si aprivano lucidi al vento.
I colori riflettevano il mondo perché anche la violenza immobile
e chiusa ha quegli atti estremi che si oppongono e soffrono come
ogni cosa che vive. Qualche volta il sole avrebbe voluto uscir fuori
ma il giallo restava come un giorno eternamente sbiadito sullamaro
sentore e non toccava il lavoro cominciato nellalba e non
giocava più in terra.
Nel crepuscolo lacqua simbeveva di rosso e in una sera
più dolce sarebbe stata una gioia.
Lucatello aveva consumato quei giorni in una calma chiarezza e gli
si era fatto più saldo il pensiero di prima. La tradizione,
lo aveva sempre saputo, rimescolava cenere su progetti senza domani,
intristendo da sola.
Ai caffè affollati aveva ancora intuito che negli accesi
discorsi sullassoluto dellarte luomo, escluso,
taceva. Lo aveva detto asciutto col suo modo ironico di alzare le
spalle e con la dura fermezza ostinata.
Dalla scala un tempo salita non sarebbero venute più voci
e bisognava essere vivi per essere fedeli alla vita altrimenti uno
parla da solo.
Restava il realismo.
Una voce chiara, una risposta, un possesso del mondo dove ogni atto,
ogni gesto, delluomo si svuota e si colma. E la natura.
Come uno specchio senza vane parole che viveva per tutti e vestiva
ogni cosa. Uno spazio certo dove far parlare i colori per scoprirvi
la forma dei corpi che sentivano il giorno.
Quanto tempo era passato.
Sotto un cielo più terso la pianura friulana è distesa
continua e la luce la impregna in silenzio.
Lucatello scorge le case raccolte, le vigne, la calda osteria.
Domani quelle colline saranno le sue e i campi zappati. E la terra
che gli racconta la stessa fatica.
Ora, intanto, è una gioia guardare per strada vivendo i ricordi
di ieri che questa luce più fresca investe di onde inaudite
di verde.
E da questa visione riandare alla forza che gli aveva reso il Polesine
nei quadri dipinti, dopo, a San Vio e riempiti di natura furiosa.
Al solito, fuori, gli era un poco monotona lacqua in laguna
come uno specchio ammuffito fra unisola e laltra.
Vedeva solo fette di terra sul piano del mare, terre sottili ricoperte
di un verde sbiadito e di storia di ieri.
Nello studio, sulla tela, le sue terre e i suoi delta erano invece
scabri e striati di luce tesa e limpida come il respiro del vento.
Il realismo avvampava nei puri colori e nella materia ispessita
che nascondeva i corpi e i sapori del mondo.
La vita in quello sfuriare di rosso o di giallo fermato nel cielo
restava stanca e oscura, impastata di terra.
Nellacqua la palude trasudava altra acqua e la pozza nel nero
diventava calcina in un alba remota.
La terra faticosa sul suolo bruciato era ricoperta di orti che stendevano
al cielo i loro volumi.
Né cerano alberi che gli rubassero il sole e la luce
tanto pesava da trascinarvi i colori di succhi salmastri, di zolle
nere, di grassa verdura.
In altri quadri il nero sincrespava come un bitume guadagnando
sempre più spazio.
Al di là pesava il rosso, il giallo o il bianco alto del
cielo in giornate crepitanti di luce.
Mai il mare o lazzurro.
Alle volte si inframmettevano anche nere teiere e la terra ne godeva
furtiva il contatto insinuante e pacato nella decisa luce del giorno.
Le loro forme si aprivano sulla materia ispessita che schiudeva
il suo solido corpo come un respiro di chi sta per parlare.
Appena più manifesto si sentiva il sospeso lavoro delluomo;
un richiamo più fresco e la semplice gioia di appartenere
alla vita.
Lucatello aveva voluto quelloggetto nel vero e che diventasse
una traccia, una chiave semantica di lettura del suo contrastato,
testardo, persistente realismo, sempre uguale solo fatto più
acuto. Quelle forme rotonde apparivano come un frutto maturo, come
limpronta della mano che segnava la terra.
Erano echi di voci che tornavano da età prossime ed insieme
lontane.
Erano luomo e il lavoro, storia e preistoria, che convivevano
nel semplice atto di esistere e riaffioravano a ricolmare la materia
di una festa antica sullorizzonte del cielo.
Erano un tondo sole delluomo che trascorreva lo spazio degli
eterni mattini e delle sere del mondo.
Una forma che si dava chiara presenza perentoria di vita e sincollava
al giallo, al rosso del cielo, nera come la terra, in cui corporeo
appariva il suo perduto essere oggetto.
La teiera era diventata un sentore, un sentimento con la sua storia
umana tornato al magma originario per sentire la natura e per discioglierla
come unanima sola in uno spasimo fresco di vita. Lucatello
ricorda. Pensa alle tante parole, agli ordinari di modernità
e al suo realismo costretto a non aver residenza. Ed ora il Friuli.
E sopra il capo il quadro grande del cielo.
Nel verde sublime la natura è dura come lo è il cuore
umano ma ha odore di vita e la spiga è loro giallo
col profumo felice del pane.
In trame complicate il sole e la terra si mischiano nei volti di
una razza che ha imparato senza sorrisi e senza parole a indurire
le mani, a strapparsi la vita.
Luoghi pieni di unonestà vecchia come lanima
coagulano ogni atto vero della pittura e della sua storia.
Lucatello ogni nuovo mattino uscirà per le strade cercando
nei colori i suoi pensieri sul mondo.
Solamente a girarle le colline e le strade riaccenderanno il calore
del suo vivo realismo e nella dimensione della materia torneranno
i sussulti intravisti nellerba.
Dipingerà questa terra superstite con limpegno della
fedeltà al proprio tempo, certo dei suoi chiari giorni e
sarà per lui unaltra meravigliosa stagione e per il
Friuli uno sfondo antico ritrovato più vero con la fresca
grafia che ne scuote il ricordo.
A lui così attaccato alla terra il Friuli è subito
luminosa passione e più rovente del sole.
Ogni mattino che torna lo trova a girare le strade più sole
che portano in aperta campagna.
Sente il motorino che batte e ribatte spossato in salita.
È felice.
Intorno si tende il gran verde e le cose nellombra sono umide
e dolci.
Di paese in paese ci sono vie secondarie di terra che salgono e
scendono.
Nessuno le infila, ma lui ne conosce ogni svolta e le strisce di
cielo tra pareti di foglie.
Tra le piante si vedono tetti di ruggine e le case bianche fermate
sui colli come una nube impigliata fra i rami.
Buia, Santa Margherita, Moruzzo, Forgaria sono macchie più
chiare imbevute di luce che lui vive e riesce a comprendere.
Colline ondeggianti si frammettono tra festoni di vigne e in fondo
il Tagliamento compare in un grandioso incendio di luce.
Lucatello ogni giorno ha nel viso calmo il pensiero che possedere
il Friuli significa avere un testo del mondo. Questa volta ha trovato
una terra dove ogni cosa ha radici per la pittura, la sostiene in
acuta tensione e gli si apre negli occhi per gli interminabili sentieri
dei gesti, delle minimali presenze. Un volto indurito, una foglia
che cade, una luce nel bosco, riflette pensieri. E la rabbia, anche
la rabbia si attorce al pennello.
Nel paesaggio il silenzio è colorato di bianco, di giallo
lodore del pane e il vento si è fatto verde ondulando
nel prato.
Ora dipinge il Friuli e la realtà di dolori vecchi e profondi,
il corpo ideologico del suo realismo, si stacca da questi sentieri
camminandogli accanto. Costretto ad essere chiaro in ogni rapporto,
nella vita e nella pittura, gli essenziali, precisi, colori che
incontra esaltano la scelta giovanile di stesure decise.
Colori da tubetto senza mediazione con lo stesso slancio della natura
come una forza antica e selvaggia che il cuore sapeva.
Nelle prime tele si aggrappano a linee portanti che sono certo orizzonti
residui, pretesti costruttivi, interventi di ritmo ma anche i segni
del vento.
Decodificati, senza ricordi padroni la loro realtà giunge
dal fondo di tutte le cose.
Si sovrappongono appena allincontro, non tono, ma come fosse
un contatto pieno di segrete tensioni che passano e conoscono a
fondo la vita.
Intanto un chiarore tranquillo riempie la stanza a Billerio e ogni
foglia trasale del suo verde diverso.
I colori sopra la tela pieni di segrete tensioni inseguono rapporti
e lontananze ignorate nel giorno del sole che sul Tagliamento va
e viene smosso dal vento. Resta però sullo sfondo, come una
traccia, quel silenzio bianco del fiume, pesto di sassi e radici,
che configge nel verde un lungo corno di luce.
Sembra quasi il Tagliamento antichissimo, quieto e assopito, un
centro del mondo con la gioia di biancheggiare di luce nei prati.
Nei quadri scorre come un vento pulito che fluisce in un grande
orizzonte con qualche ruga improvvisa di terra.
Sopra, ancora bianco, nellorgasmo dei verdi il cielo galleggia
nellaria teso come un altro fiume, disfatto nellabbandono
di un nuovo risveglio.
Altre volte invece per una voglia esasperata dei sensi è
il verde che monta nel cielo a bruciarvi loro del giorno schiacciando
la luce sulla linea ribassata del fiume sotto un grumo di rovi riarsi.
Ogni tanto il bianco dellacqua che ha imbevuto le rive trattiene
i colori raccolti sul fondo con i modi che usa il materico, ispessiti
e contorti.
Ma è solo uno specchio perché Lucatello cerca ancora
il volume che coagula e innonda ogni piega dei colli e la terra
zappata.
Lo spessore che scende in brividi lunghi è materia che si
riempie di cielo e di terra e riaffiora corposa in mezzo alle foglie.
In questi interni paesaggi guizza il pennello con freschi vapori,
taglia brezze nel cielo e si rapprende in un diverso reale vissuto
in una stanza di verde tra le rogge e le viti, maggiociondoli e
ontani.
Rapidi, sicuri segni di una gestualità riassuntiva, significante,
ricuciono in sapore di vento foglie in movimento e rinserrano tutta
lestate in una ruga improvvisa di giallo.
Ogni colore che giunge dal Friuli ha un odore di vita e la materia
si placa in un lungo respiro di frase.
Ma già gli alberi sono tumulti di vene e addensano vibrazioni
segrete.
Dentro sta montando un presagio di struttura portante, unorganicità
demozione che empirà la tela di un cielo più
grande e di lì a poco si farà essa stessa natura.
Lucatello consuma il Friuli.
La sua prospettiva ha già varcato il duro profilo del verde
e mantiene una linea diretta, la più breve, verso loggetto
reale.
I suoi segni hanno invece forza, valenza, gestuale.
Nel doppio significato mimetico e fisico sono acque e campagne dolcissime,
forme concrete di terra, gesti impuri, parole stupite o rabbiose
che scavano in fondo.
Sono i pensieri del giorno, colti camminando nei prati, che tornano
ricoperti di verde e fatti di vene dove continuano ad esserci le
colline, i volti, le case.
Ogni gesto contiene un sapore di vita e brividi antichi impregnati
di sole.
I segni sono nervature, architetture di brina e la prospettiva un
cielo di mille finestre che tocca le cose dallaltro lato e
ogni volta ritorna stupefatta del mondo.
Il resto è altro da lui.
Astratto, informale e materico, teorizzazioni dissanguate che mortificano
lodore di terra e la sua voglia di amore. Il suo è
un aggancio serrato, vischioso, fattosi cosmico con la natura che
a Tarcento scoppia in violenti ventagli.
È una padronanza un dominio perché nella sua volontà
realista la natura e limplicazione che comprende tutta la
storia e sa raccontare delluomo a ciascuno che vuole ascoltare.
È perciò che nel vento ogni odore gli diventa un ricordo
e il tumulto del verde è lo stesso tumulto del cuore.
Poi, quando il rosso si arrampica in cielo, la sera distesa sulle
colline scorre sommessa. Sallarga e cresce sopra i campi,
le case, i rioni, proponendo ai pensieri del giorno i colori aggrumati
del buio.
Allora, nel momento in cui ogni cosa si muove più lenta,
come un gran fiume nero, la materia di Lucatello lievita e irrompe
sopra quelle forme acquetate dellesistenza.
Dentro intera vi torna la vita.
Ed è una voglia ingrandita dei sensi questa che aggromma
luce nera sui minimi atti del giorno, sui declivi e sui fossi dove
la notte cova inquietudini e tenerezze del mondo.
Intanto i colori essenziali del primo momento cedono man mano al
monocromo ma sono infinite le pronuncie di quellunica voce
costrette dai segni a farsi diverse.
Il colore rioccupa tutta la tela, teso, vibrato, di unansia
chiara a cercare la vita sfiorata dallattimo e si condensa
e rinchiude nella materia che cresce diversa ma con la stessa uguaglianza.
Sono grumi, gemmazioni, forme interne di un paesaggio compreso oltre
il sonnolento sciacquio del ricordo. Sono la norma e il pensiero
che si piega sul mondo per prendere parte alla vita. La materia
ha un contenuto e una forma. Lucatello già lo aveva capito
quando il Polesine gli aveva mutato la qualità di raccontare
lumano.
Era là che aveva definitivamente saputo che ogni cosa doveva
farsi materia nel mondo.
Quella certezza di ieri ora investe tra ammassi di foglie un orizzonte
più grande rimescolata dal vento.
Ogni giorno in Friuli, ogni sguardo, gli torna in rovente evidenza
una parte di terra che germoglia di spazio la presenza delluomo.
La materia qui è storia che la natura si porta nel sangue
e sbuca dai prati, dai tronchi, dallacqua quando il sole ritira
la luce, dalle zolle che il seme lievita verdi.
La sua sensoriale presenza si svela al contatto della mano che schizza
il tubetto e arrossa, abbruna, allaga nel giallo, splende nel verde
o nereggia e riaffiora come un primo paesaggio rievocato dal mondo
dove le forme intrecciano unespressione sola di slancio nella
purezza di un solo colore.
Lucatello guarda a lungo il paesaggio seduto e fuma pacato.
Ogni cosa matura nel sole.
A Venezia, tra i palazzi accecati, nelluomo era entrato lo
spazio da fuori.
Il sole sulla pelle aveva disfatto il carbone e il carbonaio spalancato
il suo corpo al cielo scoperto.
Lucatello lo aveva compreso.
Ora vede il Friuli e le colline di terra e di foglie che vivono
uguali al suoi occhi e somigliando a quel corpo come lui attendono
il giorno.
Anche il realismo di quegli anni lontani è lo stesso e solare
riappare nel tempo stupendo che qui ingemma e spoglia le piante.
In ogni cosa come in ogni volto lo spazio rivive e si serra.
Rinchiude i tronchi, le foglie, lo sfalcio dei prati.
Coglie la mitezza daprile e la luce che sazia lestate.
Si sprofonda nel profumo del tiglio, nella stanchezza della vite
ingiallita. Quello spazio riapre ogni limite chiuso e avvolge le
cose della sua voce interiore che sale tutte le scale.
Dove la tela monocroma è più calda di luce spande
un sottile sentore di terra come un trasalimento appena vibrato.
Non è neutrale lo spazio. Non è posato sulle stagioni
del mondo, ma ha un corpo e un respiro. In una sostanza emotiva
che nella pittura coinvolge la vita.
Come lastre di una lucida sequenza, giorno per giorno, in quella
chiara natura Lucatello incontra ingrandita la verità delle
sue intuizioni.
Poi ci sono i quadri e ne sono tutti impregnati.
La realtà è un momento che la prospettiva rischiara,
diluisce, incupisce, lava, sfuma, svapora.
Destata dalla materia rende al nero la luce e costringe lo spazio
al suo suolo reale.
Anche la profondità è stravolta, strappata a distanze
e alle cose lontane. È lesatta densità del colore
che guarda da dentro la terra.
In quella possessione del reale ogni altro pretesto è caduto.
Riduzioni ed equivalenze di spessore non solo stilemi ma succhi
in fermento che alimentano ritmi e traslazioni ignorate da quella
tradizione in cui Lucatello sapeva finito il profondo sforzo di
rifare la vita
Sotto i suoi segni ci sono colline, le case e il grano che matura
nel sole.
Il colore è limpido come il respiro del vento.
Un cielo interiore di infinite tensioni brucia limmaginazione
e una nuova ondata di razionalità trova nuove parole sollecitando
i sensi a ristabilire lequilibrio fatto anchesso di
colori e dei sapori del mondo.
Altre volte il segno nei quadri infittisce di forza col tubetto
divenuto matita a rincorrere trame, altre voci, risvegli, col suo
passo leggero.
Nei suoi giochi inquieti sale e scende il tubetto, fa da controcanto
al suo stesso colore che appare sul fondo come unerba fra
i rami e rimonta, affogato di luce, allo spessore di vene che lo
incupiscono appena.
In quegli anni la vita e il lavoro di Lucatello sono pieni e consumati
nel chiaro rigore della sua volontà realista.
Dal Friuli ha avuto tutto quello che vuole e che cerca.
Ha avuto la verde confidenza delle cose già note nel sangue
e la chiara realtà nel bianco spazio del sole.
A Tarcento nella natura che gli si stringe e lo preme stacca ogni
residuo romantico e inserisce le sue convinzioni sul vero.
Di ogni cosa che vive su queste colline lo interessano la dimensione
spaziale e temporale dei segni perché la natura non è
cieca di storia.
Intorno campane di onde le colline incalzano, si ritirano e ricominciano
i movimenti incalcolabili del tempo sullorlo dei prati che
paiono fermi.
Sullorizzonte fugge la pianura nel lontano chiarore del mare
e la bellezza del giorno scoppia alta nellaria.
Nei campi che addensano il grano la fatica è sulle porte
di casa e la vita si mischia a un sole nero di terra.
Ora ciò che è stato posseduto riaffiora nella dialettica
che annoda le cose disperse e cerca nella materia, come un corpo
odoroso di zolle, la radice del sangue.
Nei gesti che la natura ripete da millenni Lucatello discioglie,
ordina e continua osservazioni, dubbi, affermazioni, negazioni,
il desiderio di sesso e di giustizia, fino a raggiungere con una
sobrietà durissima lentrata nel profondo delle cose.
Nei grandi quadri verdi è un sole di rugiada che a un tratto
si ferma sullerba e un vento senza presenza tende rami scuri,
grumi di colore che afferrano ombre.
La tela è un immenso campo verde che la luce percorre sciogliendo
il colore. Un fresco pezzo di terra ai cui confini premono i segreti
sopravvissuti del bosco.
Il giallo è loro del giorno che canta e abbronza la
luce nella maturità della spiga.
Un bagliore della materia in movimento che stempera rughe leggere
di sole e che fonde, ma permane in movimento e sostanza.
Un ordinato, sferico, giallo che esplode negli spazi del mondo e
nella durezza del grano.
Si accende nel rosso, ultimo colore del giorno, e coagula come un
sangue nella notte che incalza piena di rughe e antiche paure varcando
il confine di luce.
Pensiero rosso, integro, fresco, nei sogni dellalba quando
corre incontro al cuore giallo del sole.
Poi il nero. Il colore si corruga come le pieghe della montagna
e si afferra alla terra dove nulla è indefinito o sfumato.
Nero aggrovigliato e solo nel cuore dellidea realista che
si fa lingua per dipingere il tempo di una storia di esclusioni
e di solitudine quando, persa anche la luce, a testimoniare resta
solo la forza, linterno fuoco della natura.
Nel bianco fermenta la visione che nasce e dà luce alla luce,
generando il contrario significante del nero.
Uniti nel quadro i colori sono una luce dispari e pari, due diverse
energie consapevoli del doppio aspetto della stessa coscienza.
Bianco e nero, luce e ombra che entrano dalla stessa finestra, antinomie
speculari che coprono la faccia del mondo e che Lucatello consegna
ai colori e alle voci di terra.
Bianchi mattini, mezzogiorni solari, calde sere, bruciano in curvi
orizzonti di luce lanima grande della natura.
Dallangolo delle antitesi il colore di Lucatello veste inseguendo
colpe o virtù, delusioni e speranze.
Essere pittori ci vuol molto tempo a pensare, a capire, e la libertà
di se stessi, perché si formi qualcosa che valga a durare.
La curva geometria della luce è un tondo telaio che si fa
forma mimetica del sole e del mondo, ma oggettiva e non elezione
di stile.
È il grande occhio della natura, il suo circolare equilibrio
e lassoluto dominio sul vizio, le deformazioni delluomo.
Lucatello pensa nel suo odore pulito loggettività del
reale e dipingendo il pensiero i soli alti del cielo trascorrono
felici nel sangue a rischiararlo senza inpurezze.
Verranno gli ostacoli violenti e brutali a prefigurare la fine di
cuore e ragione e lalienante possesso che si fa della storia.
Ma ora i tondi telai sono immagini grafiche e mentali del tempo,
meridiane di ore dipinte con voglia intatta di vita. Sono conquiste
nel piano della spaziosa atmosfera attorcigliata in pallide vene
dove la materia ravviva e reiventa il movimento in prospettive sconvolte.
Tutto rotola, si esalta, sinfuria e resta immobile in una
frenetica, esatta, calligrafia come il brusio del silenzio che sale
a queste colline.
Si scompone la natura con lansia dei suoi momenti che non
passano mai ed è un labirinto, una ragnatela, in cui si muove
prigioniero lo spazio e filtra, scorrendo di luce le nervature del
colore impregnato di un gusto di terra.
Calde mattine di Tarcento e Vendoglio tra i campi di granoturco
e i filari dei gelsi ancora freschi di sonno che coronano laghi
sparsi di luce.
Il buio rende serene le sere nelle osterie e nei bar riempiti di
voci.
Là sincontra spesso qualcuno che bevendo il suo vino
attacca discorsi su ricordi remoti o sul futuro che attende. Lucatello
lo lascia parlare godendo il pensiero che nelle parole di tutti
cè un po della vita.
Gli altri, i compagni, con quelle faccie di sole che possiedono
il mondo gli sorridono sotto i lumi del vecchio biliardo sfidando
a boccette.
Gioca con loro e ogni tanto alzano il capo e bevono grappa che ha
il colore dellacqua e lasprezza di terra.
Hanno anche sguardi dintesa e idee convergenti pur nella diversità
della vita che sa di comune possesso.
Torna in quel tepore che sa losteria la gioia del verde dipinto
nel sole quando nulla disturbava il mattino.
In mezzo a prati e colline, nella natura, ci sono gli stessi momenti
colorati e felici in cui vale la pena godere di tutte le piccole
cose del mondo con lo stesso piacere del bicchiere fra amici.
Ma negli ostacoli tra le sbarre nere manca quel sole di prima e
il vento si disorienta.
Serrature gelate, scale oscure delluomo, calano sulla libertà
di natura e non cè luce nel loro futuro.
Dietro quei segni cè qualcosa che si perde ogni giorno:
una fiducia, un pensiero, anche la speranza si perde.
Al di qua il tempo delluomo invecchia lentamente, dedito alla
normalità della vita, facendo gloria in un vestito tristemente
oscuro della propria sconfitta. Negli ostacoli il gesto si ingigantisce,
diventa una grande ombra e minacciosa sullo schermo bianco della
tela dove si sta ritirando la luce.
È carico di furore come una coscienza chiara che viene offesa,
assediata, strappata alla terra e ha un sapore di sangue che gela.
Gli ostacoli bloccandola occupano la virtualità infinita
delluniverso in una luce fredda che smette di farsi sapienza.
È ancora dialettica uomonatura esasperata da una triste
realtà profetica in cui si sgretola il mondo quando dalla
terra una volta per sempre non verranno più voci.
Cè qui, senza penose illusioni, il massimo di una tensione
eticoideologica, la rabbia di Lucatello, il rifiuto dei mercati
delluomo.
Ma loggetto recupera le dimensioni della materia nei tronchi
che colmano il cielo, immobili come fossero il tempo.
Quei gelsi, nella luce che cade dallalto, vivono le rughe
profonde dei volti e laspro sentore della terra spaccata.
Gonfi e contorti nei filari dei prati o storpi giganti addossati
alle case hanno nei corpi il forte silenzio dei cuori induriti e
un sapore di povere cene nello stanco rincasare dai campi.
Ad ogni tornare del giorno, stagliati sulle prode dei tratturi affossati,
le loro nere statue di legno sono palpitanti polittici di uniconografia
contadina nella liturgia di natura.
Tra i rami improvvise le foglie si fanno gocce nere come occhi pungenti
in volti scolpiti di spazio.
Lucatello riagisce la materialità del suo realismo con la
tensione di un richiamo nel vero fatto appena più certo.
Poi le foglie si staccano e tronchi carnali sessuati si svelano
agli sguardi del cielo godendo il puro contatto di una prima alba
del mondo.
Ognuno racchiude nel calore del sesso la verifica del segreto infinito
dove la natura vive e rivive e coglie la luce. È recuperato
nellerezione del gelso il moto ancora pagano che riempie la
vita e che risale al tempo dellazzurro senza storia del cielo.
E vengono i giorni di sole, incalcolabili, delicati di Brazzacco
e nellaria un nuovo tepore.
Dallo studio compaiono le dolci colline e si sente forte lodore
dellerba. Sullorizzonte disteso, Lucatello vede appiattirsi
grandi soli che tramontando lasciano lunghe striscie di commiato
attutendo ogni luce.
Da colle a colle impressionano le risonanze del verde che è
una lunga carezza e fa chiudere gli occhi. Rassicurata la lentezza
del giorno trascorre fino a far esplodere i fragori dei gialli nei
frumenti percossi di luce. Perdura la sera una calma stupita fatta
anchessa di foglie e sprofonda nellombra i filari dei
gelsi e le viti. Sono rimasti indietro, colorati di nero silenzio,
gli ostacoli e i loro chiusi orizzonti.
La natura in quelle forme nude aveva taciuto come fosse stata un
sogno senza ragione.
Erano calati con loro sul mondo i limiti, le delusioni della storia,
la stolida incomprensione, la rabbia, il rifiuto morale.
Ma ora al semplice trionfo degli eterni mattini Lucatello ritrova
il sorriso così attaccato alla terra.
Torna il giorno vibrante e nella natura batte il cuore più
sano.
Anche i suoi colori prendono la strada di una speranza assorbita
in quella luce quasi adolescente attendendo fiduciosi le sere e
i mattini.
La materia si assottiglia, ridiventa segno, rioccupa stesure nella
tela per dipingere il vento, ricondurlo a linee, sezionarlo nelle
gocce del colore e fissarlo a forma nel movimento verdazzurro delle
foglie.
Allora nella luce laria è una fonte di fine architettura
che somma due o tre accordi sottili e dissolve ogni distanza tra
le cose.
Scende a lenti passi tra gli scatti nervosi del pennello, alonata
geometria darancio, un sole infinitamente delicato.
Sprofonda il verde, tra ritagliate inquadrature difensive, andando
incontro al rosso e trattiene nellaria tersa, quasi incolore
della tela, le distanze interiori del suo spazio.
Poi la luce sbriciola farfalle che odorano di terra e linee curve
sono concreti impulsi che cedono larghi spazi al colore che li colma.
Rientra il nero. Per colline e sentieri si fa carne il ricordo e
le ali sono ombre segrete denudate, inguini di donne fuggitive imbevuti
della notte della terra e la natura ha seni innamorati di colline.
Gli fa piacere passare i mattini seduto alla frasca isolata nel
sole cercando i colori. Non viene nessuno e le sedie dun azzurro
scolorito si guardano sole. È lora che lodore
del vino si mescola al profumo del tiglio.
Tuttattorno montano verdi prepotenti e nel cielo fatto derba
mille alberature di acacie chiudono il cielo.
Lombra del gelso è un rifugio tranquillo e le foglie
discorrono con quel brio che hanno sempre al mattino.
Non si odono altri rumori solo quella brezza che passa tra i rami
e le strade sono anche deserte.
Della natura non cè nulla che non possa sapersi stando
a quella finestra e ci sono dappertutto colori.
Tra il vuoto del cortile e lorto il riposo degli oggetti ha
la festiva leggerezza delle cose semplici che nel bel sole dimenticano
la terra che aspetta.
Lucatello osserva le superfici usate, le ceste, le zappe, i manici,
le ruote che hanno percorso polverose distanze e fuma in silenzio.
Questo indugio è il più dolce.
Da essi emana il duro legame delluomo alla terra e parole
rassegnate di antico sudore.
Assorto guarda luso, laffastellamento, le orme delle
dita e pensa alla sua vita condotta come un altro strumento votato
alla pittura. Una donna nel ristagno dellaria serve il vino,
il volto annerito ha un sapore di terra.
Buon giorno Professore.
Ridono gli occhi azzurri di metallo e vagano nel silenzio che segue
la parola.
Nello studio domani le colline, i soli, le foglie, saranno distesi
in colori. Dalla aperta finestra entrerà un cielo più
grande e lodore giallo del fieno.
Poi la voglia improvvisa di risalire la valle ad ascoltare il vuoto
che cè sotto il cielo.
Frequentazioni costanti, infinite giornate tra impalcature dilavate
dallacqua e poi corrose dal vento sullorlo estremo di
età sepolte in un tempo di una lentezza spietata.
A fondo valle, tra i sassi e le fredde acque del Torre che scorre
sommesso, è Pradielis colpito dal sole. Contro lombra
delle Prealpi le finestre sgranano punti di luce.
In alto sotto la tenda azzurra del cielo un pallido vento sfilaccia
le nubi addossate alla parete dei Musi che, come una ruga selvaggia
ammassata da ere giganti, scopre il tumulto degli immensi giorni
del mondo.
Lì Lucatello, sottomesso, assorto, guarda quei monumenti
tenaci della natura, quei sentieri verticali di ghiaia inondati
di luce finché quella parete di solitudine ossessa, implacabile
nella sua nudità, gli diventa una musa che incatena una vita
di resistenza, un paesaggio reale vissuto in poveri luoghi da gente
iscritta a unanagrafe che da ogni storia si vuole ignorata.
Losteria è vuota nel tardo mattino e i monti riempiono
il cielo.
Ma qualcuno nel silenzio si muove. Senza rumore, saldate a quel
mondo per immagini interne, compaiono nel paesaggio una figura di
donna, poi unaltra, molte figure e ciascuna sa di essere sola.
Sono le donne sradicate dal terremoto che lui aveva affettuosamente
dipinto nel remoto inverno nebbioso di Grado. Volti duri rassegnati
a vecchie morti con la tristezza senzocchi della pena nascosta
e che non aspettano più nulla perché nulla sembra
possa ancora accadere.
Anche i corpi sono fatti di vene annerite, dure come radici, come
i muschi rinsecchiti dei Musi e con la sola sicurezza del sole che
torna.
Nella tela la montagna non tocca più il cielo.
Il suo orizzonte è uno strapiombo di colore maculato dei
rosati dellalba, dei gialli e i bruni di marne e arenarie
mischiate in una polvere temporale lievemente impregnata di materia
come una condensazione di epoche remote nella continuità
della vita.
In una luce friabile e molle i sassi si fanno lievi come ossature
invecchiate che distrutte le pareti cercano nel quadro profonde
simmetrie dove le cose consumate si posano come fossero secoli.
Gocce di colore si uniscono in grandi mucchi con un senso ondulato
dinfinito e rinserrano ogni cosa che vive.
Anche i rumori dispersi della valle si rapprendono al quadro e lassurdo
silenzio di stasi geologiche macera al fondo come coperto di polvere.
Gli stanchi moti dei canaloni, fiumi ciecamente deserti, nella tela
riprendono vita e improvviso giunge anche lodore dei licheni
e, fresco e nudo, quello dei pini nei graffi dellombra.
La realtà che è nel colore del mondo resta intatta
nelle sue riduzioni ed è ancora il realismo sostenuto e difficile,
implicato e totale, che da queste pietre raggelate trae un calore
di alte passioni (e vi sarà sempre qualcuno a dire di Ernst
o di Pollock o di dripping).
Ma ecco a personalizzare la tela, a darne ragione esclusiva, tra
i puntuali colori e la tensione dei segni il pensiero di Lucatello.
Chiaro nel sole in cui si confonde.
Solo uno sguardo distratto potrebbe non cogliere nella circolazione
di appigli e significati che percorre ogni tela, radicato con paragoni
interiori, il discorso mantenuto sempre diretto e oggettivo.
Le immagini ricompongono nella natura ogni cosa delluomo e
ogni segno è un ricordo che infonde nel sangue qualcosa di
nuovo, destinato a durare.
Il pensiero è lì in quel rapporto dialettico con la
natura, in quellossesso rapporto di sempre, aperto come una
rosa della pittura con una disperata vitalità di sfuggire
ai caparbi inganni delle catalogazioni che sono meccanica fretta
nella non volontà di capire.
Perciò Lucatello, intero di passione e ragione, aspro talvolta,
dialogava con quella parte di critica incomprensiva per destinazione
e che non saccorge nemmeno dei sapori del mondo negando le
sue distratte carezze e le ammiccanti benedizioni che finivano per
intristire ogni cosa.
Ciò che non le consentiva era ridurlo o imprigionarlo nei
suoi brevi confini che livellano ogni passione con la sterile mole
di parole ammucchiate. A quel punto cosa importavano gli altri?
Preferiva restarsene solo. Il lavoro attendeva e domani un altro
mattino vibrato dal sole si sarebbe spalancato in un largo silenzio
cancellando ogni voce.
Valeva la pena di non essere stato compreso pur di uscire a quel
cielo!
Vedeva nella natura le infinite lezioni che compiute attestano la
storia delluomo nei suoi errori, nelle sue impurezze e traeva
da essa la capacità di disobbedire e di ribellarsi scontando.
Alla proterva certezza opponeva il lavoro, ricominciato da zero
ogni volta, ambizioso di non dover nulla a nessuno perché
la pittura è cosa viva da farsi sudando e non un dono del
cielo.
In questo è stato uomo e pittore civile. Ognuno fissa il
suo slancio in qualcosa per poter accettare la vita, per capire
la storia, per poter ragionare: per Lucatello la pittura era definitivamente
ancorata al fondo di tutte le cose, era il grande equilibrio nellambiguità
del reale, era, infine, la gioia di ricoprire dei colori i pensieri
del giorno.
Lì, dove il mondo profuma più umano, tra casolari
e vigneti, dolcemente ribelle, gli era restato il sereno coraggio
di aver compiuto se stesso con un continuo, irrimediabile impegno.
Perciò quando si è dovuto arrabbiare lo ha fatto.
Non cera altra via nel fondo del suo destino di uomopittore.
Mai ha risposto con mitezza alle mistificazioni, al gusto iniquo
espresso con ambizioso diritto dagli uomini vestiti del bianco di
asettiche filosofie dove ogni cosa era nitida e morta.
Un solo quadro dentro una morale così sconfinata è
una vita.
È la somma di un uomo che non si può soffocare parlando
per schemi dissanguati in ciechi smarrimenti di stile.
Le voci morte sono stanchi rumori che ebbri e prosaici fanno palazzi
di fumo. Atto onesto è chiedere di essere compresi e guardare
in faccia la gente.
Vecchio privilegio è capire con umiltà, caso per caso,
e non fare a memoria i custodi di culti perché cè
ancora qualcuno che vive ancorato nel mondo. E pensa. E crede, sudando.
Lucatello pittore veneziano amò con forza e subito le verdi
terre friulane, le conquistò con pazienza e saggezza, le
tradusse nei suoi quadri, le legittimò nei suoi colori, nei
segni e nei suoi occhi azzurri.
Volle per amore essere sempre fedele al mandato della vita e della
natura. |
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ALBINO LUCATELLO
pubblicato in occasione della mostra retrospettiva organizzata dal
Comune di Venezia nelle sale dellOpera Bevilacqua La Masa,
22 marzo 13 aprile 1986
Renzo Viezzi
Udine, Novembre 1985
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