Viezzi, 1986
Saggi critici
   
Da Tarcento la strada risale adagio tra l’erba che il sole ha scaldato. Davanti a Billerio scivolano in una lontananza di acque, rincorse da acacie e ontani, terre annerite di umori, gelsi e vigneti dorati. L’orizzonte è una grande finestra di luce che fonde l’immensa pianura dove l’unico ostacolo è l’aria.
Il tetto azzurro del cielo sembra qua e là sostenuto da maestosi castagni e le montagne di antica pazienza, alle spalle, sono fredde di vento.
Non troppo lontano il Tagliamento è ampio colore di polvere bianca e alle sue rive di fanghi induriti appoggiano radici e boscaglie di verde.
La natura composita del Friuli, inquieta e dolce a un tempo, ha un sussulto di sangue e sostituisce in fretta negli occhi e nel cuore di Lucatello il sussurro dei pigri canali dove remota sonnecchia Venezia.
La sua acuta sensibilità calata in questo mondo meno affollato e diverso avverte una sollecitazione nuova, una voce più aspra e più netta che sale a cercargli le vene.
In questa terra non sempre dolce né buona, tra le povere case di pietra, non ci sono ricordi ma solo un risveglio di vita: basta quel po’ di silenzio e ogni cosa si ferma al suo luogo reale.
Con meraviglioso stupore nelle cose che vede riconosce il mondo della sua precedente esistenza, l’ansia inesausta di contatti e sapori.
È come se le sue giovanili intuizioni e la storia in cui vuol rientrare riapparissero in quei muri di pietra o stesi nei prati, chiesti in prestito da una natura ritrovata con la sorpresa di un vecchio compagno.
Tutto coincide straordinariamente al suo personale linguaggio, alla scelta culturale e di vita che aveva cresciuto e inseguito poco più che ragazzo nell’amata e disincantata Venezia dei popolari campielli e delle calli affollate dov’erano vivi i carbonai ed i tetti e induriva la voce dei delta grumosi.
Certo c’era stato il Polesine e la dimensione spaziale più netta ammassata ai confini di un cielo bruciato.
Là aveva lucidamente saputo quel bisogno di terra che gli mordeva nel sangue e che ora il Friuli gli rimanda stupendo in giorni di sole.
Ma doveva a quella Venezia la sua crescita culturale, la sua condizione di pittore, le sue fughe in avanti e l’ortografia irrompente
Respirandola aveva ordinato nella coscienza la lezione della storia e dell’arte ed era giunto al suo limite.
Lavorando duro s’era scontrato con i rifiuti della vecchia scuola ma aveva anche vissuto i momenti chiari della semplice gioia di avere capito.
Ormai quando levava lo sguardo a quelle architetture preziose dove aveva imparato bambino a leggere la storia e la grande pittura quell’idillio di bianchi ricami, quelle tante finestre, gli parevano appena occhi spenti che dormono. Giovanissimo aveva ben presto capito con un’ansia ch’era ancora sopravvivenza romantica com’era da decidere a nuovo la storia e l’ingenuo, inutile, sforzo di rifare a parole la vita.
E aveva scelto.
Le calli fresche di mezza mattina piene di voci e i carbonai che avanzavano neri, senza ritegno, nel sole tornando a S. Vio da qualche fatica.
Si fermava con loro che lo guardavano fermi a bere dall’oste, a parlare, giocare, a farne i ritratti.
Quella era Venezia.
Con le donne e i vecchi che conoscevano il tempo e dove la vita aveva la consistenza speciale che sui volti era popolare allegria.
Lucatello in quegli anni lontani aveva proposto a suo destino di pittore quei corpi e quei volti cercando la vita tra le scorie di fumo della cultura.
Il lavoro gettava ombre per strada e sui segni del viso la fatica aveva occhi pesanti.
Contro il vuoto delle astratte parole e la tradizione ammuffita Lucatello aveva interposto come una grande parete illuminata di spazio la realtà delle loro figure.
Il suo carbonaio non si accorgeva della gente che andava e veniva, dei palazzi e dell’acqua che trascorreva lenta.
Era solo. Attaccato al selciato, si stringeva le mani. I barconi erano andati e venuti e lui poteva sedersi nel sole e riceverlo tiepido addosso. Avvampava la camicia di tela rimboccata alle braccia e gli occhi sicuri dell’uomo chini a fissare la terra.
Sopra il mezzogiorno era azzurro e intorno Venezia deserta di marmi. Fra poco con qualche compagno dai muscoli grossi avrebbe ripreso il lavoro sostenendo il suo sacco che intontiva la schiena ma alla sera, ridendo, avrebbe avuto la forza di giocare al braccio di ferro.
Tutto avveniva in un movimento di segni deciso che si faceva colore.
Il carboncino sfumava da dentro come il tepore del sangue e il tratto spezzato si ricomponeva crescendo ed esisteva nel corpo uno spazio più grande.
Sulla carta secca come il sudore asciugato nel sole quei segni tracciati con foga avevano la stessa arsura che dava il carbone.
Dentro anche sbocciava la luce e l’odore salmastro del mare.
Senza rabbia su quelle figure e senza rassegnazione trascorrevano le ragioni dell’uomo e si sentiva la vastità della terra e l’ampio respiro del mondo. Nei disegni Lucatello dipingeva il pensiero.
Quell’esistenza sospesa tra un sacco di carbone dopo tanti altri sacchi e che accettava il lavoro come un duro destino dell’uomo si era fatta strumento insistito che lui aveva toccato per anni.
Era stata un sentore che aveva la giovane vita arretrando nel tempo i gioielli dei marmi.
Qualcuno di quegli uomini anneriti nel volto andava e veniva fino a tardi nel giorno per buttarsi alla fine al selciato, disteso sotto il sole a dormire.
Lucatello aveva a lungo pensato che in quel dormire fiducioso all’aperto aveva in qualche modo incontrata la sua stessa sicurezza di vita.
Nel corpo assopito, che pensava sul braccio la fatica del giorno, leggeva la cruda realtà e la semplice gioia di esistere che poteva adattare al più ampio spazio del mondo.
Dalla chiesa barocca come un pallore smottava sull’uomo una luce di secoli stanchi ma dal di dentro un’altra luce più vera e più sacra seccava il sudore e ingrandiva su piazze e sestieri, sconfinando da universali lagune.
Era il momento a Venezia che le ideologie avevano investito ogni voglia di nuovo.
Le teorie dell’astratto trascorrevano la cultura affamata e la tradizione appariva un silenzio di noia che dava sul vuoto.
Già allora Lucatello sapeva se stesso, il bisogno di dire concreto e l’ansia di un centro in cui rinchiudere il mondo.
Così il carbonaio si era fatto categoria dell’uomo reale nella storia reale e l’idea della totalità della terra gli faceva da sfondo.
Era stata una scelta che aveva vissuto sincera e diretta come si fa con l’amico e gli era bastata a capire come poteva rinascere il vero.
Lucatello aveva sempre trovato compagni trovando se stesso.
Anche così sarebbero stati gli anni dopo in Friuli vivendo amicizie con uomini semplici ma saldi e signori di se e che solo a guardarli si sapeva la terra.
Anche nei loro racconti avrebbe ritrovato confuse e reali le speranze del mondo e la comune esperienza teneramente intonata.
Quelli avrebbe dipinto dipingendo la terra.
Ma allora, in quel tempo remoto, c’erano ancora i barconi che scendevano adagio il canale sospinti e pesanti e i carbonai che stringevano il loro giorno, dall’alba, a quei sacchi.
Intorno il silenzio voluto della città e del cielo.
Altri giorni erano passati e un nuovo studio spalancava balconi proprio a quel cielo taciuto.
Sotto, una Venezia dolce di tiepido sole si muoveva più lenta e case basse di tegole secche cuocevano adagio alla luce. Anche i rumori della vita nella gente che andava per strada giungevano fiochi parlati dal vento.
Lucatello si era trovato stupito a fissare quel vuoto che si riempiva di azzurro e quei tetti scoperti.
Nella loro popolare dignità la città copriva di vita i suoi bianchi splendori e ogni cosa nel giorno pareva più vera. Quel sentore perdurava stagnante nell’aria per farsi soggetto su cui riversare il pensiero.
Lucatello non guardava, toccava assorto quei tetti. Sotto le case erano ferme piantate ai canali.
Perché l’azzurro del cielo avesse un senso profondo bisognava affidare ai volumi radici ben salde del vissuto dell’uomo e dare in caldi colori l’allegrezza di risa e voci remote che, in quella Venezia illesa tra i secoli, rinforzava di luce.
Dipingendo avrebbe potuto discutere della calma, del vento umidiccio, del tepore delle camere sfatte e deserte al mattino.
Quei tetti posseduti in un giorno tranquillo gli si erano fatti impegno sonoro, forma, volume, odore di vita per giungere al vero.
Già il loro spazio allargato proponeva ai colori il linguaggio aperto di un primo paesaggio che fino ai Musi non avrebbe trovato più fine.
Dallo studio, lassù, gli si era mostrato come un orizzonte vibrante di tegole che si ponevano immobili e riempivano il cielo
Al di sotto la laguna era stesa anche lei e sfumava nel nulla.
Sui tetti di terra bruciata cadeva la luce distratta di colori di voglie e rimbalzando diversa sembrava giocare al chiarore del giorno.
Trascorrendo in una sabbia rosata accendeva il mattone di un rosso leggero e s’impolverava di sole ingiallito nel caldo dell’ocra.
Col bianco riempiva i campielli di una macchia più fresca e più nuda che ne schiariva il ricordo.
L’azzurro stendeva l’altezza del cielo e anneriva di un segno i canali, umido e dolce come l’ombra d’estate.
Lucatello sentiva in quelle voci festose che parevano nuvole sode e colorate nel cielo i segni della città e il brusio della vita.
In quella prospettiva allargata innalzava volumi che altalenavano sul piano del mare a tagliarne il profilo di luce. Così aveva voluto Venezia. Viva fra i disaccordi della sua prospettiva.
Luminosa, segreta, sotto quei tetti e ogni colore addossato a raccontare il tepore di vita nel solido azzurro del cielo. Ma ora è un’altra estate ed altri i colori che sprofondati nell’aria scorrono la realtà del Friuli dove colline miste alle nubi accerchiano il cielo.
I gialli sono ori leggeri di luce. Misti al vento gli azzurri ed i verdi.
Tanti verdi!
Smeraldi nell’erba che il sole ha scaldato e verdemarcio nel fieno.
Verde vestito di grigio l’inverno con sapore di pioggia caduta.
La natura ha verdi misteri e persiste negli umori, annerita di verde, dove il bosco intreccia le ombre.
Confinato sulle rive del Tagliamento anche il bianco si ferma a sentire l’arsura del fiume e c’è lo sbiancare del cielo che dopo tanto pallore riavrà la sua vita in azzurro.
Il tramonto scuote di rosso la fine del giorno e si sfoga per vuoti che sono finestre di fuoco.
Può anche accadere che un soffio più freddo spenga luci e colori ma ristagna nel nero il sentore di vita.
Lucatello coglie gli urti, le mille voci, i brusii e la pena nascosta.
Nulla può disturbare i giorni del mondo e il puro colore basta a vestire ogni cosa.
Nel Friuli ha trovato una terra che infonde ogni giorno nel sangue qualcosa di nuovo e uomini saldi che zappano le vigne d’estate e quando hanno sete bevono vino.
Li incontra la sera in accorate osterie aperte su valli o in borghi raccolti dove festeggiano rumorosi la sera.
Gli diventano amici.
Parlano e ascoltano con la soave saggezza che serve alla vita.
Sorridono, anche, negli occhi sicuri e hanno mani indurite e facce mischiate di terra.
Lucatello sa bene che loro sono la terra. Basta uscire perché la natura ha sempre un riflesso che ricorda il vecchio sudore e rispecchia solido il corpo che batte di sangue.
Dentro e fuori ogni cosa esala lo stesso sapore e accade in silenzio.
Lucatello lo aveva sentito da sempre. Dalla lontana stagione dei delta.
Ora, distaccato e diverso, nella realtà del Friuli senza scuse o finzioni poetiche, quel tempo passato gli si fa terso nella memoria.
Rivede in un ingiallimento feroce i giorni di Scardovari, gli argini rotti, le piogge e le albe bruciate che gli avevano mutato i colori del mondo.
Quella miseria spalmata come un fango sulla lama del cielo aveva dato corpo al pensiero, gli aveva segnato definitivamente la strada come un sussulto del sangue.
Più certa della storia è la vita e la realtà che sale dal mondo è intessuta di umano!
Valeva la pena tornare ad ascoltare la voce del fiume e quel disfatto sapore di terra e di sole.
Su una rantolante corriera era tornato e aveva rivisto i casolari già vecchi al mattino, la bianca piazzetta, i canali e, lontano, l’umida luce del mare.
La lotta mesta e lunga della vita che il cuore balzava scoprendo impregnava il suo corpo come il sudore le carni indurite sotto il nero maligno dell’afa. Non c’era che guardare quel Polesine affogato nel sole e possederne la verità prepotente che saliva ogni giorno con la forza salita agli argini rotti.
Con uno stacco più netto gli era cresciuta la convinzione dialettica con cui esprimere il mondo e l’ansia di contraddire la sistemazione sintattica e con la natura dire dell’uomo.
Quella luce che si svenava nel fango e la terra stanca e oscura già nel bianco mattino erano sapori di un’umanità inquieta e teneramente sgomenta dove poteva fissare il pensiero e affondare, finalmente, radici.
C’era un sentore, uno scatto, nella dimensione spaziale ch’era lo stesso dell’uomo solamente più netto e ingrandito sul mondo.
E in questo accadere s’era compiuta la materialità della natura senza distinguere case né cielo ma dove pur sempre restava il tepore che sa d’osteria, di fuoco acceso al camino e di parole arrochite nel giorno.
La natura posseduta in quella sola primavera lontana era diretto realismo che colava limo slabbrato sull’acqua dove pensierosi si piegavano i corpi a coltivare gli atti del loro difficile giorno che il cielo come una riga di freddo spegneva in disadorni sentori.
Nei quadri che aveva dipinto il bianco era un pallido vento che avviliva e atterriva. Una luce di mattini gelati come un latte denso dentro una cortina indurita, covata dall’alba.
Sotto, la terra, una coltre corrosa da antichi sudori sfatti in una luce d’inferno che ammassava il suo nero come una notte paurosa di vuoti dentro il cuore profondo.
Ogni casa, ogni campo, aveva il colore del sangue annerito raccolto ai confini di un cielo bruciato.
Al fondo, più nudo e spossato, svaniva disteso il profilo dell’acqua a sostenere la terra in un buio percorso da brani di nebbia.
Nella natura oscura di vecchio lavoro nera rabbia di pittura nel petto.
Nero. Nero pieno, totale, senza scuse romantiche o di polveroso mistero che non serviva a nessuno ma nera, storica, lingua per raccontare la vita pagata giorno per giorno.
Il bianco e il nero. Due corpi diversi ciascuno sull’altro che si aprivano lucidi al vento.
I colori riflettevano il mondo perché anche la violenza immobile e chiusa ha quegli atti estremi che si oppongono e soffrono come ogni cosa che vive. Qualche volta il sole avrebbe voluto uscir fuori ma il giallo restava come un giorno eternamente sbiadito sull’amaro sentore e non toccava il lavoro cominciato nell’alba e non giocava più in terra.
Nel crepuscolo l’acqua s’imbeveva di rosso e in una sera più dolce sarebbe stata una gioia.
Lucatello aveva consumato quei giorni in una calma chiarezza e gli si era fatto più saldo il pensiero di prima. La tradizione, lo aveva sempre saputo, rimescolava cenere su progetti senza domani, intristendo da sola.
Ai caffè affollati aveva ancora intuito che negli accesi discorsi sull’assoluto dell’arte l’uomo, escluso, taceva. Lo aveva detto asciutto col suo modo ironico di alzare le spalle e con la dura fermezza ostinata.
Dalla scala un tempo salita non sarebbero venute più voci e bisognava essere vivi per essere fedeli alla vita altrimenti uno parla da solo.
Restava il realismo.
Una voce chiara, una risposta, un possesso del mondo dove ogni atto, ogni gesto, dell’uomo si svuota e si colma. E la natura.
Come uno specchio senza vane parole che viveva per tutti e vestiva ogni cosa. Uno spazio certo dove far parlare i colori per scoprirvi la forma dei corpi che sentivano il giorno.
Quanto tempo era passato.
Sotto un cielo più terso la pianura friulana è distesa continua e la luce la impregna in silenzio.
Lucatello scorge le case raccolte, le vigne, la calda osteria.
Domani quelle colline saranno le sue e i campi zappati. E la terra che gli racconta la stessa fatica.
Ora, intanto, è una gioia guardare per strada vivendo i ricordi di ieri che questa luce più fresca investe di onde inaudite di verde.
E da questa visione riandare alla forza che gli aveva reso il Polesine nei quadri dipinti, dopo, a San Vio e riempiti di natura furiosa.
Al solito, fuori, gli era un poco monotona l’acqua in laguna come uno specchio ammuffito fra un’isola e l’altra.
Vedeva solo fette di terra sul piano del mare, terre sottili ricoperte di un verde sbiadito e di storia di ieri.
Nello studio, sulla tela, le sue terre e i suoi delta erano invece scabri e striati di luce tesa e limpida come il respiro del vento.
Il realismo avvampava nei puri colori e nella materia ispessita che nascondeva i corpi e i sapori del mondo.
La vita in quello sfuriare di rosso o di giallo fermato nel cielo restava stanca e oscura, impastata di terra.
Nell’acqua la palude trasudava altra acqua e la pozza nel nero diventava calcina in un alba remota.
La terra faticosa sul suolo bruciato era ricoperta di orti che stendevano al cielo i loro volumi.
Né c’erano alberi che gli rubassero il sole e la luce tanto pesava da trascinarvi i colori di succhi salmastri, di zolle nere, di grassa verdura.
In altri quadri il nero s’increspava come un bitume guadagnando sempre più spazio.
Al di là pesava il rosso, il giallo o il bianco alto del cielo in giornate crepitanti di luce.
Mai il mare o l’azzurro.
Alle volte si inframmettevano anche nere teiere e la terra ne godeva furtiva il contatto insinuante e pacato nella decisa luce del giorno.
Le loro forme si aprivano sulla materia ispessita che schiudeva il suo solido corpo come un respiro di chi sta per parlare.
Appena più manifesto si sentiva il sospeso lavoro dell’uomo; un richiamo più fresco e la semplice gioia di appartenere alla vita.
Lucatello aveva voluto quell’oggetto nel vero e che diventasse una traccia, una chiave semantica di lettura del suo contrastato, testardo, persistente realismo, sempre uguale solo fatto più acuto. Quelle forme rotonde apparivano come un frutto maturo, come l’impronta della mano che segnava la terra.
Erano echi di voci che tornavano da età prossime ed insieme lontane.
Erano l’uomo e il lavoro, storia e preistoria, che convivevano nel semplice atto di esistere e riaffioravano a ricolmare la materia di una festa antica sull’orizzonte del cielo.
Erano un tondo sole dell’uomo che trascorreva lo spazio degli eterni mattini e delle sere del mondo.
Una forma che si dava chiara presenza perentoria di vita e s’incollava al giallo, al rosso del cielo, nera come la terra, in cui corporeo appariva il suo perduto essere oggetto.
La teiera era diventata un sentore, un sentimento con la sua storia umana tornato al magma originario per sentire la natura e per discioglierla come un’anima sola in uno spasimo fresco di vita. Lucatello ricorda. Pensa alle tante parole, agli ordinari di modernità e al suo realismo costretto a non aver residenza. Ed ora il Friuli. E sopra il capo il quadro grande del cielo.
Nel verde sublime la natura è dura come lo è il cuore umano ma ha odore di vita e la spiga è l’oro giallo col profumo felice del pane.
In trame complicate il sole e la terra si mischiano nei volti di una razza che ha imparato senza sorrisi e senza parole a indurire le mani, a strapparsi la vita.
Luoghi pieni di un’onestà vecchia come l’anima coagulano ogni atto vero della pittura e della sua storia.
Lucatello ogni nuovo mattino uscirà per le strade cercando nei colori i suoi pensieri sul mondo.
Solamente a girarle le colline e le strade riaccenderanno il calore del suo vivo realismo e nella dimensione della materia torneranno i sussulti intravisti nell’erba.
Dipingerà questa terra superstite con l’impegno della fedeltà al proprio tempo, certo dei suoi chiari giorni e sarà per lui un’altra meravigliosa stagione e per il Friuli uno sfondo antico ritrovato più vero con la fresca grafia che ne scuote il ricordo.
A lui così attaccato alla terra il Friuli è subito luminosa passione e più rovente del sole.
Ogni mattino che torna lo trova a girare le strade più sole che portano in aperta campagna.
Sente il motorino che batte e ribatte spossato in salita.
È felice.
Intorno si tende il gran verde e le cose nell’ombra sono umide e dolci.
Di paese in paese ci sono vie secondarie di terra che salgono e scendono.
Nessuno le infila, ma lui ne conosce ogni svolta e le strisce di cielo tra pareti di foglie.
Tra le piante si vedono tetti di ruggine e le case bianche fermate sui colli come una nube impigliata fra i rami.
Buia, Santa Margherita, Moruzzo, Forgaria sono macchie più chiare imbevute di luce che lui vive e riesce a comprendere.
Colline ondeggianti si frammettono tra festoni di vigne e in fondo il Tagliamento compare in un grandioso incendio di luce.
Lucatello ogni giorno ha nel viso calmo il pensiero che possedere il Friuli significa avere un testo del mondo. Questa volta ha trovato una terra dove ogni cosa ha radici per la pittura, la sostiene in acuta tensione e gli si apre negli occhi per gli interminabili sentieri dei gesti, delle minimali presenze. Un volto indurito, una foglia che cade, una luce nel bosco, riflette pensieri. E la rabbia, anche la rabbia si attorce al pennello.
Nel paesaggio il silenzio è colorato di bianco, di giallo l’odore del pane e il vento si è fatto verde ondulando nel prato.
Ora dipinge il Friuli e la realtà di dolori vecchi e profondi, il corpo ideologico del suo realismo, si stacca da questi sentieri camminandogli accanto. Costretto ad essere chiaro in ogni rapporto, nella vita e nella pittura, gli essenziali, precisi, colori che incontra esaltano la scelta giovanile di stesure decise.
Colori da tubetto senza mediazione con lo stesso slancio della natura come una forza antica e selvaggia che il cuore sapeva.
Nelle prime tele si aggrappano a linee portanti che sono certo orizzonti residui, pretesti costruttivi, interventi di ritmo ma anche i segni del vento.
Decodificati, senza ricordi padroni la loro realtà giunge dal fondo di tutte le cose.
Si sovrappongono appena all’incontro, non tono, ma come fosse un contatto pieno di segrete tensioni che passano e conoscono a fondo la vita.
Intanto un chiarore tranquillo riempie la stanza a Billerio e ogni foglia trasale del suo verde diverso.
I colori sopra la tela pieni di segrete tensioni inseguono rapporti e lontananze ignorate nel giorno del sole che sul Tagliamento va e viene smosso dal vento. Resta però sullo sfondo, come una traccia, quel silenzio bianco del fiume, pesto di sassi e radici, che configge nel verde un lungo corno di luce.
Sembra quasi il Tagliamento antichissimo, quieto e assopito, un centro del mondo con la gioia di biancheggiare di luce nei prati.
Nei quadri scorre come un vento pulito che fluisce in un grande orizzonte con qualche ruga improvvisa di terra.
Sopra, ancora bianco, nell’orgasmo dei verdi il cielo galleggia nell’aria teso come un altro fiume, disfatto nell’abbandono di un nuovo risveglio.
Altre volte invece per una voglia esasperata dei sensi è il verde che monta nel cielo a bruciarvi l’oro del giorno schiacciando la luce sulla linea ribassata del fiume sotto un grumo di rovi riarsi. Ogni tanto il bianco dell’acqua che ha imbevuto le rive trattiene i colori raccolti sul fondo con i modi che usa il materico, ispessiti e contorti.
Ma è solo uno specchio perché Lucatello cerca ancora il volume che coagula e innonda ogni piega dei colli e la terra zappata.
Lo spessore che scende in brividi lunghi è materia che si riempie di cielo e di terra e riaffiora corposa in mezzo alle foglie.
In questi interni paesaggi guizza il pennello con freschi vapori, taglia brezze nel cielo e si rapprende in un diverso reale vissuto in una stanza di verde tra le rogge e le viti, maggiociondoli e ontani.
Rapidi, sicuri segni di una gestualità riassuntiva, significante, ricuciono in sapore di vento foglie in movimento e rinserrano tutta l’estate in una ruga improvvisa di giallo.
Ogni colore che giunge dal Friuli ha un odore di vita e la materia si placa in un lungo respiro di frase.
Ma già gli alberi sono tumulti di vene e addensano vibrazioni segrete.
Dentro sta montando un presagio di struttura portante, un’organicità d’emozione che empirà la tela di un cielo più grande e di lì a poco si farà essa stessa natura.
Lucatello consuma il Friuli.
La sua prospettiva ha già varcato il duro profilo del verde e mantiene una linea diretta, la più breve, verso l’oggetto reale.
I suoi segni hanno invece forza, valenza, gestuale.
Nel doppio significato mimetico e fisico sono acque e campagne dolcissime, forme concrete di terra, gesti impuri, parole stupite o rabbiose che scavano in fondo.
Sono i pensieri del giorno, colti camminando nei prati, che tornano ricoperti di verde e fatti di vene dove continuano ad esserci le colline, i volti, le case.
Ogni gesto contiene un sapore di vita e brividi antichi impregnati di sole.
I segni sono nervature, architetture di brina e la prospettiva un cielo di mille finestre che tocca le cose dall’altro lato e ogni volta ritorna stupefatta del mondo.
Il resto è altro da lui.
Astratto, informale e materico, teorizzazioni dissanguate che mortificano l’odore di terra e la sua voglia di amore. Il suo è un aggancio serrato, vischioso, fattosi cosmico con la natura che a Tarcento scoppia in violenti ventagli.
È una padronanza un dominio perché nella sua volontà realista la natura e l’implicazione che comprende tutta la storia e sa raccontare dell’uomo a ciascuno che vuole ascoltare.
È perciò che nel vento ogni odore gli diventa un ricordo e il tumulto del verde è lo stesso tumulto del cuore.
Poi, quando il rosso si arrampica in cielo, la sera distesa sulle colline scorre sommessa. S’allarga e cresce sopra i campi, le case, i rioni, proponendo ai pensieri del giorno i colori aggrumati del buio.
Allora, nel momento in cui ogni cosa si muove più lenta, come un gran fiume nero, la materia di Lucatello lievita e irrompe sopra quelle forme acquetate dell’esistenza.
Dentro intera vi torna la vita.
Ed è una voglia ingrandita dei sensi questa che aggromma luce nera sui minimi atti del giorno, sui declivi e sui fossi dove la notte cova inquietudini e tenerezze del mondo.
Intanto i colori essenziali del primo momento cedono man mano al monocromo ma sono infinite le pronuncie di quell’unica voce costrette dai segni a farsi diverse.
Il colore rioccupa tutta la tela, teso, vibrato, di un’ansia chiara a cercare la vita sfiorata dall’attimo e si condensa e rinchiude nella materia che cresce diversa ma con la stessa uguaglianza.
Sono grumi, gemmazioni, forme interne di un paesaggio compreso oltre il sonnolento sciacquio del ricordo. Sono la norma e il pensiero che si piega sul mondo per prendere parte alla vita. La materia ha un contenuto e una forma. Lucatello già lo aveva capito quando il Polesine gli aveva mutato la qualità di raccontare l’umano.
Era là che aveva definitivamente saputo che ogni cosa doveva farsi materia nel mondo.
Quella certezza di ieri ora investe tra ammassi di foglie un orizzonte più grande rimescolata dal vento.
Ogni giorno in Friuli, ogni sguardo, gli torna in rovente evidenza una parte di terra che germoglia di spazio la presenza dell’uomo.
La materia qui è storia che la natura si porta nel sangue e sbuca dai prati, dai tronchi, dall’acqua quando il sole ritira la luce, dalle zolle che il seme lievita verdi.
La sua sensoriale presenza si svela al contatto della mano che schizza il tubetto e arrossa, abbruna, allaga nel giallo, splende nel verde o nereggia e riaffiora come un primo paesaggio rievocato dal mondo dove le forme intrecciano un’espressione sola di slancio nella purezza di un solo colore.
Lucatello guarda a lungo il paesaggio seduto e fuma pacato.
Ogni cosa matura nel sole.
A Venezia, tra i palazzi accecati, nell’uomo era entrato lo spazio da fuori.
Il sole sulla pelle aveva disfatto il carbone e il carbonaio spalancato il suo corpo al cielo scoperto.
Lucatello lo aveva compreso.
Ora vede il Friuli e le colline di terra e di foglie che vivono uguali al suoi occhi e somigliando a quel corpo come lui attendono il giorno.
Anche il realismo di quegli anni lontani è lo stesso e solare riappare nel tempo stupendo che qui ingemma e spoglia le piante.
In ogni cosa come in ogni volto lo spazio rivive e si serra.
Rinchiude i tronchi, le foglie, lo sfalcio dei prati.
Coglie la mitezza d’aprile e la luce che sazia l’estate.
Si sprofonda nel profumo del tiglio, nella stanchezza della vite ingiallita. Quello spazio riapre ogni limite chiuso e avvolge le cose della sua voce interiore che sale tutte le scale.
Dove la tela monocroma è più calda di luce spande un sottile sentore di terra come un trasalimento appena vibrato.
Non è neutrale lo spazio. Non è posato sulle stagioni del mondo, ma ha un corpo e un respiro. In una sostanza emotiva che nella pittura coinvolge la vita.
Come lastre di una lucida sequenza, giorno per giorno, in quella chiara natura Lucatello incontra ingrandita la verità delle sue intuizioni.
Poi ci sono i quadri e ne sono tutti impregnati.
La realtà è un momento che la prospettiva rischiara, diluisce, incupisce, lava, sfuma, svapora.
Destata dalla materia rende al nero la luce e costringe lo spazio al suo suolo reale.
Anche la profondità è stravolta, strappata a distanze e alle cose lontane. È l’esatta densità del colore che guarda da dentro la terra.
In quella possessione del reale ogni altro pretesto è caduto.
Riduzioni ed equivalenze di spessore non solo stilemi ma succhi in fermento che alimentano ritmi e traslazioni ignorate da quella tradizione in cui Lucatello sapeva finito il profondo sforzo di rifare la vita
Sotto i suoi segni ci sono colline, le case e il grano che matura nel sole.
Il colore è limpido come il respiro del vento.
Un cielo interiore di infinite tensioni brucia l’immaginazione e una nuova ondata di razionalità trova nuove parole sollecitando i sensi a ristabilire l’equilibrio fatto anch’esso di colori e dei sapori del mondo.
Altre volte il segno nei quadri infittisce di forza col tubetto divenuto matita a rincorrere trame, altre voci, risvegli, col suo passo leggero.
Nei suoi giochi inquieti sale e scende il tubetto, fa da controcanto al suo stesso colore che appare sul fondo come un’erba fra i rami e rimonta, affogato di luce, allo spessore di vene che lo incupiscono appena.
In quegli anni la vita e il lavoro di Lucatello sono pieni e consumati nel chiaro rigore della sua volontà realista.
Dal Friuli ha avuto tutto quello che vuole e che cerca.
Ha avuto la verde confidenza delle cose già note nel sangue e la chiara realtà nel bianco spazio del sole.
A Tarcento nella natura che gli si stringe e lo preme stacca ogni residuo romantico e inserisce le sue convinzioni sul vero.
Di ogni cosa che vive su queste colline lo interessano la dimensione spaziale e temporale dei segni perché la natura non è cieca di storia.
Intorno campane di onde le colline incalzano, si ritirano e ricominciano i movimenti incalcolabili del tempo sull’orlo dei prati che paiono fermi.
Sull’orizzonte fugge la pianura nel lontano chiarore del mare e la bellezza del giorno scoppia alta nell’aria.
Nei campi che addensano il grano la fatica è sulle porte di casa e la vita si mischia a un sole nero di terra.
Ora ciò che è stato posseduto riaffiora nella dialettica che annoda le cose disperse e cerca nella materia, come un corpo odoroso di zolle, la radice del sangue.
Nei gesti che la natura ripete da millenni Lucatello discioglie, ordina e continua osservazioni, dubbi, affermazioni, negazioni, il desiderio di sesso e di giustizia, fino a raggiungere con una sobrietà durissima l’entrata nel profondo delle cose.
Nei grandi quadri verdi è un sole di rugiada che a un tratto si ferma sull’erba e un vento senza presenza tende rami scuri, grumi di colore che afferrano ombre.
La tela è un immenso campo verde che la luce percorre sciogliendo il colore. Un fresco pezzo di terra ai cui confini premono i segreti sopravvissuti del bosco.
Il giallo è l’oro del giorno che canta e abbronza la luce nella maturità della spiga.
Un bagliore della materia in movimento che stempera rughe leggere di sole e che fonde, ma permane in movimento e sostanza.
Un ordinato, sferico, giallo che esplode negli spazi del mondo e nella durezza del grano.
Si accende nel rosso, ultimo colore del giorno, e coagula come un sangue nella notte che incalza piena di rughe e antiche paure varcando il confine di luce.
Pensiero rosso, integro, fresco, nei sogni dell’alba quando corre incontro al cuore giallo del sole.
Poi il nero. Il colore si corruga come le pieghe della montagna e si afferra alla terra dove nulla è indefinito o sfumato. Nero aggrovigliato e solo nel cuore dell’idea realista che si fa lingua per dipingere il tempo di una storia di esclusioni e di solitudine quando, persa anche la luce, a testimoniare resta solo la forza, l’interno fuoco della natura.
Nel bianco fermenta la visione che nasce e dà luce alla luce, generando il contrario significante del nero.
Uniti nel quadro i colori sono una luce dispari e pari, due diverse energie consapevoli del doppio aspetto della stessa coscienza.
Bianco e nero, luce e ombra che entrano dalla stessa finestra, antinomie speculari che coprono la faccia del mondo e che Lucatello consegna ai colori e alle voci di terra.
Bianchi mattini, mezzogiorni solari, calde sere, bruciano in curvi orizzonti di luce l’anima grande della natura.
Dall’angolo delle antitesi il colore di Lucatello veste inseguendo colpe o virtù, delusioni e speranze.
Essere pittori ci vuol molto tempo a pensare, a capire, e la libertà di se stessi, perché si formi qualcosa che valga a durare.
La curva geometria della luce è un tondo telaio che si fa forma mimetica del sole e del mondo, ma oggettiva e non elezione di stile.
È il grande occhio della natura, il suo circolare equilibrio e l’assoluto dominio sul vizio, le deformazioni dell’uomo.
Lucatello pensa nel suo odore pulito l’oggettività del reale e dipingendo il pensiero i soli alti del cielo trascorrono felici nel sangue a rischiararlo senza inpurezze.
Verranno gli ostacoli violenti e brutali a prefigurare la fine di cuore e ragione e l’alienante possesso che si fa della storia.
Ma ora i tondi telai sono immagini grafiche e mentali del tempo, meridiane di ore dipinte con voglia intatta di vita. Sono conquiste nel piano della spaziosa atmosfera attorcigliata in pallide vene dove la materia ravviva e reiventa il movimento in prospettive sconvolte.
Tutto rotola, si esalta, s’infuria e resta immobile in una frenetica, esatta, calligrafia come il brusio del silenzio che sale a queste colline.
Si scompone la natura con l’ansia dei suoi momenti che non passano mai ed è un labirinto, una ragnatela, in cui si muove prigioniero lo spazio e filtra, scorrendo di luce le nervature del colore impregnato di un gusto di terra.
Calde mattine di Tarcento e Vendoglio tra i campi di granoturco e i filari dei gelsi ancora freschi di sonno che coronano laghi sparsi di luce.
Il buio rende serene le sere nelle osterie e nei bar riempiti di voci.
Là s’incontra spesso qualcuno che bevendo il suo vino attacca discorsi su ricordi remoti o sul futuro che attende. Lucatello lo lascia parlare godendo il pensiero che nelle parole di tutti c’è un po’ della vita.
Gli altri, i compagni, con quelle faccie di sole che possiedono il mondo gli sorridono sotto i lumi del vecchio biliardo sfidando a boccette.
Gioca con loro e ogni tanto alzano il capo e bevono grappa che ha il colore dell’acqua e l’asprezza di terra.
Hanno anche sguardi d’intesa e idee convergenti pur nella diversità della vita che sa di comune possesso.
Torna in quel tepore che sa l’osteria la gioia del verde dipinto nel sole quando nulla disturbava il mattino.
In mezzo a prati e colline, nella natura, ci sono gli stessi momenti colorati e felici in cui vale la pena godere di tutte le piccole cose del mondo con lo stesso piacere del bicchiere fra amici.
Ma negli ostacoli tra le sbarre nere manca quel sole di prima e il vento si disorienta.
Serrature gelate, scale oscure dell’uomo, calano sulla libertà di natura e non c’è luce nel loro futuro.
Dietro quei segni c’è qualcosa che si perde ogni giorno: una fiducia, un pensiero, anche la speranza si perde.
Al di qua il tempo dell’uomo invecchia lentamente, dedito alla normalità della vita, facendo gloria in un vestito tristemente oscuro della propria sconfitta. Negli ostacoli il gesto si ingigantisce, diventa una grande ombra e minacciosa sullo schermo bianco della tela dove si sta ritirando la luce.
È carico di furore come una coscienza chiara che viene offesa, assediata, strappata alla terra e ha un sapore di sangue che gela.
Gli ostacoli bloccandola occupano la virtualità infinita dell’universo in una luce fredda che smette di farsi sapienza. È ancora dialettica uomo–natura esasperata da una triste realtà profetica in cui si sgretola il mondo quando dalla terra una volta per sempre non verranno più voci.
C’è qui, senza penose illusioni, il massimo di una tensione etico–ideologica, la rabbia di Lucatello, il rifiuto dei mercati dell’uomo.
Ma l’oggetto recupera le dimensioni della materia nei tronchi che colmano il cielo, immobili come fossero il tempo.
Quei gelsi, nella luce che cade dall’alto, vivono le rughe profonde dei volti e l’aspro sentore della terra spaccata.
Gonfi e contorti nei filari dei prati o storpi giganti addossati alle case hanno nei corpi il forte silenzio dei cuori induriti e un sapore di povere cene nello stanco rincasare dai campi.
Ad ogni tornare del giorno, stagliati sulle prode dei tratturi affossati, le loro nere statue di legno sono palpitanti polittici di un’iconografia contadina nella liturgia di natura.
Tra i rami improvvise le foglie si fanno gocce nere come occhi pungenti in volti scolpiti di spazio.
Lucatello riagisce la materialità del suo realismo con la tensione di un richiamo nel vero fatto appena più certo. Poi le foglie si staccano e tronchi carnali sessuati si svelano agli sguardi del cielo godendo il puro contatto di una prima alba del mondo.
Ognuno racchiude nel calore del sesso la verifica del segreto infinito dove la natura vive e rivive e coglie la luce. È recuperato nell’erezione del gelso il moto ancora pagano che riempie la vita e che risale al tempo dell’azzurro senza storia del cielo.
E vengono i giorni di sole, incalcolabili, delicati di Brazzacco e nell’aria un nuovo tepore.
Dallo studio compaiono le dolci colline e si sente forte l’odore dell’erba. Sull’orizzonte disteso, Lucatello vede appiattirsi grandi soli che tramontando lasciano lunghe striscie di commiato attutendo ogni luce.
Da colle a colle impressionano le risonanze del verde che è una lunga carezza e fa chiudere gli occhi. Rassicurata la lentezza del giorno trascorre fino a far esplodere i fragori dei gialli nei frumenti percossi di luce. Perdura la sera una calma stupita fatta anch’essa di foglie e sprofonda nell’ombra i filari dei gelsi e le viti. Sono rimasti indietro, colorati di nero silenzio, gli ostacoli e i loro chiusi orizzonti.
La natura in quelle forme nude aveva taciuto come fosse stata un sogno senza ragione.
Erano calati con loro sul mondo i limiti, le delusioni della storia, la stolida incomprensione, la rabbia, il rifiuto morale.
Ma ora al semplice trionfo degli eterni mattini Lucatello ritrova il sorriso così attaccato alla terra.
Torna il giorno vibrante e nella natura batte il cuore più sano.
Anche i suoi colori prendono la strada di una speranza assorbita in quella luce quasi adolescente attendendo fiduciosi le sere e i mattini.
La materia si assottiglia, ridiventa segno, rioccupa stesure nella tela per dipingere il vento, ricondurlo a linee, sezionarlo nelle gocce del colore e fissarlo a forma nel movimento verdazzurro delle foglie.
Allora nella luce l’aria è una fonte di fine architettura che somma due o tre accordi sottili e dissolve ogni distanza tra le cose.
Scende a lenti passi tra gli scatti nervosi del pennello, alonata geometria d’arancio, un sole infinitamente delicato.
Sprofonda il verde, tra ritagliate inquadrature difensive, andando incontro al rosso e trattiene nell’aria tersa, quasi incolore della tela, le distanze interiori del suo spazio.
Poi la luce sbriciola farfalle che odorano di terra e linee curve sono concreti impulsi che cedono larghi spazi al colore che li colma.
Rientra il nero. Per colline e sentieri si fa carne il ricordo e le ali sono ombre segrete denudate, inguini di donne fuggitive imbevuti della notte della terra e la natura ha seni innamorati di colline.
Gli fa piacere passare i mattini seduto alla frasca isolata nel sole cercando i colori. Non viene nessuno e le sedie d’un azzurro scolorito si guardano sole. È l’ora che l’odore del vino si mescola al profumo del tiglio.
Tutt’attorno montano verdi prepotenti e nel cielo fatto d’erba mille alberature di acacie chiudono il cielo.
L’ombra del gelso è un rifugio tranquillo e le foglie discorrono con quel brio che hanno sempre al mattino.
Non si odono altri rumori solo quella brezza che passa tra i rami e le strade sono anche deserte.
Della natura non c’è nulla che non possa sapersi stando a quella finestra e ci sono dappertutto colori.
Tra il vuoto del cortile e l’orto il riposo degli oggetti ha la festiva leggerezza delle cose semplici che nel bel sole dimenticano la terra che aspetta.
Lucatello osserva le superfici usate, le ceste, le zappe, i manici, le ruote che hanno percorso polverose distanze e fuma in silenzio.
Questo indugio è il più dolce.
Da essi emana il duro legame dell’uomo alla terra e parole rassegnate di antico sudore.
Assorto guarda l’uso, l’affastellamento, le orme delle dita e pensa alla sua vita condotta come un altro strumento votato alla pittura. Una donna nel ristagno dell’aria serve il vino, il volto annerito ha un sapore di terra.
“Buon giorno Professore”.
Ridono gli occhi azzurri di metallo e vagano nel silenzio che segue la parola.
Nello studio domani le colline, i soli, le foglie, saranno distesi in colori. Dalla aperta finestra entrerà un cielo più grande e l’odore giallo del fieno.
Poi la voglia improvvisa di risalire la valle ad ascoltare il vuoto che c’è sotto il cielo.
Frequentazioni costanti, infinite giornate tra impalcature dilavate dall’acqua e poi corrose dal vento sull’orlo estremo di età sepolte in un tempo di una lentezza spietata.
A fondo valle, tra i sassi e le fredde acque del Torre che scorre sommesso, è Pradielis colpito dal sole. Contro l’ombra delle Prealpi le finestre sgranano punti di luce.
In alto sotto la tenda azzurra del cielo un pallido vento sfilaccia le nubi addossate alla parete dei Musi che, come una ruga selvaggia ammassata da ere giganti, scopre il tumulto degli immensi giorni del mondo.
Lì Lucatello, sottomesso, assorto, guarda quei monumenti tenaci della natura, quei sentieri verticali di ghiaia inondati di luce finché quella parete di solitudine ossessa, implacabile nella sua nudità, gli diventa una musa che incatena una vita di resistenza, un paesaggio reale vissuto in poveri luoghi da gente iscritta a un’anagrafe che da ogni storia si vuole ignorata.
L’osteria è vuota nel tardo mattino e i monti riempiono il cielo.
Ma qualcuno nel silenzio si muove. Senza rumore, saldate a quel mondo per immagini interne, compaiono nel paesaggio una figura di donna, poi un’altra, molte figure e ciascuna sa di essere sola.
Sono le donne sradicate dal terremoto che lui aveva affettuosamente dipinto nel remoto inverno nebbioso di Grado. Volti duri rassegnati a vecchie morti con la tristezza senz’occhi della pena nascosta e che non aspettano più nulla perché nulla sembra possa ancora accadere.
Anche i corpi sono fatti di vene annerite, dure come radici, come i muschi rinsecchiti dei Musi e con la sola sicurezza del sole che torna.
Nella tela la montagna non tocca più il cielo.
Il suo orizzonte è uno strapiombo di colore maculato dei rosati dell’alba, dei gialli e i bruni di marne e arenarie mischiate in una polvere temporale lievemente impregnata di materia come una condensazione di epoche remote nella continuità della vita.
In una luce friabile e molle i sassi si fanno lievi come ossature invecchiate che distrutte le pareti cercano nel quadro profonde simmetrie dove le cose consumate si posano come fossero secoli. Gocce di colore si uniscono in grandi mucchi con un senso ondulato d’infinito e rinserrano ogni cosa che vive.
Anche i rumori dispersi della valle si rapprendono al quadro e l’assurdo silenzio di stasi geologiche macera al fondo come coperto di polvere.
Gli stanchi moti dei canaloni, fiumi ciecamente deserti, nella tela riprendono vita e improvviso giunge anche l’odore dei licheni e, fresco e nudo, quello dei pini nei graffi dell’ombra.
La realtà che è nel colore del mondo resta intatta nelle sue riduzioni ed è ancora il realismo sostenuto e difficile, implicato e totale, che da queste pietre raggelate trae un calore di alte passioni (e vi sarà sempre qualcuno a dire di Ernst o di Pollock o di dripping).
Ma ecco a personalizzare la tela, a darne ragione esclusiva, tra i puntuali colori e la tensione dei segni il pensiero di Lucatello.
Chiaro nel sole in cui si confonde.
Solo uno sguardo distratto potrebbe non cogliere nella circolazione di appigli e significati che percorre ogni tela, radicato con paragoni interiori, il discorso mantenuto sempre diretto e oggettivo.
Le immagini ricompongono nella natura ogni cosa dell’uomo e ogni segno è un ricordo che infonde nel sangue qualcosa di nuovo, destinato a durare.
Il pensiero è lì in quel rapporto dialettico con la natura, in quell’ossesso rapporto di sempre, aperto come una rosa della pittura con una disperata vitalità di sfuggire ai caparbi inganni delle catalogazioni che sono meccanica fretta nella non volontà di capire.
Perciò Lucatello, intero di passione e ragione, aspro talvolta, dialogava con quella parte di critica incomprensiva per destinazione e che non s’accorge nemmeno dei sapori del mondo negando le sue distratte carezze e le ammiccanti benedizioni che finivano per intristire ogni cosa.
Ciò che non le consentiva era ridurlo o imprigionarlo nei suoi brevi confini che livellano ogni passione con la sterile mole di parole ammucchiate. A quel punto cosa importavano gli altri? Preferiva restarsene solo. Il lavoro attendeva e domani un altro mattino vibrato dal sole si sarebbe spalancato in un largo silenzio cancellando ogni voce.
Valeva la pena di non essere stato compreso pur di uscire a quel cielo!
Vedeva nella natura le infinite lezioni che compiute attestano la storia dell’uomo nei suoi errori, nelle sue impurezze e traeva da essa la capacità di disobbedire e di ribellarsi scontando.
Alla proterva certezza opponeva il lavoro, ricominciato da zero ogni volta, ambizioso di non dover nulla a nessuno perché la pittura è cosa viva da farsi sudando e non un dono del cielo.
In questo è stato uomo e pittore civile. Ognuno fissa il suo slancio in qualcosa per poter accettare la vita, per capire la storia, per poter ragionare: per Lucatello la pittura era definitivamente ancorata al fondo di tutte le cose, era il grande equilibrio nell’ambiguità del reale, era, infine, la gioia di ricoprire dei colori i pensieri del giorno.
Lì, dove il mondo profuma più umano, tra casolari e vigneti, dolcemente ribelle, gli era restato il sereno coraggio di aver compiuto se stesso con un continuo, irrimediabile impegno.
Perciò quando si è dovuto arrabbiare lo ha fatto. Non c’era altra via nel fondo del suo destino di uomo–pittore.
Mai ha risposto con mitezza alle mistificazioni, al gusto iniquo espresso con ambizioso diritto dagli uomini vestiti del bianco di asettiche filosofie dove ogni cosa era nitida e morta.
Un solo quadro dentro una morale così sconfinata è una vita.
È la somma di un uomo che non si può soffocare parlando per schemi dissanguati in ciechi smarrimenti di stile.
Le voci morte sono stanchi rumori che ebbri e prosaici fanno palazzi di fumo. Atto onesto è chiedere di essere compresi e guardare in faccia la gente.
Vecchio privilegio è capire con umiltà, caso per caso, e non fare a memoria i custodi di culti perché c’è ancora qualcuno che vive ancorato nel mondo. E pensa. E crede, sudando.
Lucatello pittore veneziano amò con forza e subito le verdi terre friulane, le conquistò con pazienza e saggezza, le tradusse nei suoi quadri, le legittimò nei suoi colori, nei segni e nei suoi occhi azzurri.
Volle per amore essere sempre fedele al mandato della vita e della natura.
 

ALBINO LUCATELLO
pubblicato in occasione della mostra retrospettiva organizzata dal Comune di Venezia nelle sale dell’Opera Bevilacqua La Masa, 22 marzo – 13 aprile 1986

Renzo Viezzi
Udine, Novembre 1985


 

 


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