Solmi, 1988
Saggi critici
   
Probabilmente Albino Lucatello, con la tipica diffidenza che molti artisti coltivano non senza ragione nei confronti della critica e dei suoi apparati classificatori, troverebbe arbitrario un processo di rilettura della sua opera pittorica alla luce di linee di struttura e di linguaggio mutuate dal contesto internazionale o in esso convergenti. Ma credo sia proprio inevitabile, in una occasione come quella che ci è offerta dalla sensibilità dei responsabili della Galleria d’Arte moderna di Udine, tentare l’analisi “in situazione” di una vicenda d’arte fra le più rilevanti, e insieme fra le più discrete, di quante si siano svolte nell’Italia del secondo dopoguerra. La verifica di questa affermazione non sarebbe del resto possibile se non ci si riferisse costantemente e concretamente a una realtà che, come tutte le realtà culturali, non è definibile in termini geografici né può comprendersi in limiti di scelte affettive, sempre comprensibili in un artista che vuole essere libero di scegliersi rapporti e luoghi privilegiati di lavoro, ma abbastanza irrilevanti per chi debba, come il critico o lo storico dell’arte, muoversi secondo prospettive le più ampie possibili, pena una accentuazione del rischio di parzialità del giudizio e di riduzione del campo d’indagine a pacificanti convenzioni interpretative. Queste possono tanto più pesare allorché si consideri la personalità di un artista come Lucatello, certamente capace di suggestione anche in virtù di una sorta di sincera tendenza ad isolarsi dai luoghi di maggior clamore retorico e per quella vocazione alla solitudine e alla silenziosa riflessione che lo portava, si legge negli scritti che lo riguardano, a diffidare della tradizione e della storia o, meglio, a cercarne nuove significazioni dialettiche nel rivivere l’una come tradizione di luoghi, di sensazioni e d’affetti e l’altra più come memoria d’inquinate umanità che non come processo aperto al presente.
L’avversione ai sistemi è cosa molto comune negli artisti che operano per impulsi e per intuito e che credono alla ragione (fonte di ogni storicismo) solo in quanto essa, pascalianamente, può affermare la sua irragionevolezza a diventare strumento di critica della omologazione per sistemi della vita e dell’arte. Da quel poco che posso aver appreso da coloro che meglio di me hanno conosciuto Lucatello, mi sembra di poter dire che non era uomo da rifuggir le inquietudini e i problemi anche quando più serenamente sembrava abbandonarsi all’incanto di una visione “puramente” pittorica o alla confidenza di amicizie che costituiranno punti di riferimento non dubbi del suo operare e del suo vivere en artiste.
La sua passione politica, che deve essere restata forte anche nei momenti di più dura delusione e di più accentuate amarezze, e le conseguenti dichiarazioni di poetica sempre improntate ai principi di un realismo che aveva ben poco a che spartire con quello d’impronta dogmatica degli zdanoviani d’osservanza, ci testimoniano di una volontà di partecipazione al sociale che non s’attenuò neppure allorché vennero meno le ragioni dell’impegno militante e a Lucatello, come ad altri artisti e intellettuali italiani, parve che per l’arte e la cultura fosse giunto il momento di salvaguardare soprattutto la propria autonomia nei confronti dei diversi centri del potere, da quello accademico a quello, appunto, politico che s’avviava all’infinito gioco dei compromessi suggeriti dal funzionalismo e dal pragmatismo.
Lucatello aveva probabilmente creduto, negli anni delle generose illusioni del dopoguerra, che funzione estetica e funzione sociale potessero convergere, se non identificarsi, in una azione di diretto intento politico senza che i valori specifici dell’arte avessero a soffrirne, nella convinzione anzi che ne venissero esaltati. Fu un momento di verità e di illusione della cultura di sinistra che ebbe proprio a Venezia uno dei suoi centri più vivi e inquieti. Le vicende che portarono alla costituzione e al dissolvimento del Fronte nuovo delle arti, l’irrigidirsi del dibattito su posizioni dogmaticamente contrapposte di realismo e di formalismo, la crisi che attraversò e divise la cultura di sinistra nel nostro Paese, furono cose patite e vissute da Lucatello con quella passione di cui ci dà così viva testimonianza la moglie Giselda in un testo che ritengo fondamentale. Tenere come punto di riferimento il mondo degli operai, dei facchini, dei carbonai, delle mondine, di quella umanità che per dannazione di fatica e per orgoglio del vivere sembrava essere più vicina a ciò che gli intellettuali, stanchi di metafisiche e di ridondanze retoriche, ritenevano fosse “natura”, non era che un modo per dar respiro anche in arte a ciò che in letteratura, con Vittorini e Pavese, e nel cinema con l’epica popolare del neorealismo s’era rivelata l’intuizione veramente europea della nuova cultura italiana. La simbiosi fra uomo e natura, il senso vitale e vibrante della materia, il pathos dell’essere e del vivere pienamente una realtà esaltante od angosciosa, ma certamente ineludibile, furono elementi comuni di tutta la cultura italiana fino ai tardi anni Cinquanta. A ben vedere, sia i neo–realisti che gli astratto–concreti e gli ultimi naturalisti che costituirono un largo fronte all’interno della cultura dell’informale, si richiamavano allo stesso principio di realtà. Non c’è da stupirsi se Lucatello poteva trovar ragioni non minori per il suo impegno nel misurarsi sia con la materia intesa come immagine organica del “naturale” sia con i volti e le “figure” di una umanità che al pari della natura sembrava recare i segni delle ingiurie e delle offese di millenni, ma che pur viveva e testimoniava di una possibile autenticità dell’essere. Non tocca a me, in questa occasione, esaminare le opere composte da Lucatello in quegli anni di fervido lavoro, dato che la mostra che qui si presenta prende le mosse dalle prime opere composte dall’artista dopo il suo distacco dalla realtà veneziana e il trasferimento in Friuli, ma non posso esimermi dal notare che non v’è stata frattura alcuna per quanto riguarda lo specifico dell’immagine creata da Lucatello in quanto esse sono gli antecedenti necessari delle tele con i motivi dei greti del Tagliamento, degli alberi, dei momenti solari e di natura. Senza dubbio le immagini materiche degli orti e dei paesaggi di Portosecco, sono risposte straordinariamente originali al naturalismo di Morlotti ed agli informali di Padania amati da Francesco Arcangeli, non meno che la serie dei Tramonti sullo stagno, dei Delta e delle Teiere. Intendo dire che sebbene le suggestioni delle terra friulana, delle sue tonalità aspre, l’enigma delle sue luci e delle sue ombre abbiano avuto, e non potevano non avere su un artista dalla vorace apprensione visiva come Lucatello, un profondo effetto, pensare che questo sia stato sconvolgente sarebbe un vero e proprio errore. Il pittore non ha fatto altro che trovare nella natura friulana una conferma esterna, in qualche modo perfino oggettiva, del proprio modo di immaginare la realtà della pittura. Come sempre accade quando l’artista insegue un proprio interno fantasma, questo prende forma attraverso un processo autonomo, anche se ovviamente non indipendente rispetto ai dati di natura, di senso e di sentimento che agiscono e interagiscono nel momento misterioso di creazione dell’opera. Lucatello in questo non era pittore diverso da altri che coltivano una loro gelosa vocazione all’espressione libera e forse anche libertaria. Che il suo realismo potesse prendere le forme dell’espressionismo figurale o dell’astratto–concreto, come già avviene a metà degli anni Cinquanta, per approdare ad esiti che riecheggiano le alte proposte d’Europa e d’America proprio quando più egli dimostra di volersi isolare, è cosa che stupisce come stupiscono sempre i miracoli dell’intuizione estetica; ma ciò non vuol dire che sia stata stravolta o infranta quella coerenza e quella continuità formale e linguistica che di tutta l’opera di Lucatello resta caratteristica fondamentale. Nulla qui appare lasciato al caso o all’improvvisazione immotivata e non ci vuol molto a comprendere che un filo neppur troppo sottile lega in un unico discorso i già ricordati dipinti del Delta o i Paesaggi di Portosecco, ove la materia s’aggruma in ritmi violati dai toni squillanti del colore e obbedienti a una interna pulsione, e i quadri in cui è evidente l’abbandonarsi dell’artista al fascino del disordine organico. Ma ecco gli inesorabili equilibri della serie degli Alberi e dei Momenti di natura dipinti fra il 1968 e il 1969. È come se in Lucatello, ad una fase di forte espressività corrispondente alla dinamica formale dell’avanguardismo venturiano fosse subentrato un momento di riflessione, di meditata sintesi, senza che ciò togliesse forza e aggressività alla composizione. L’Albero del 1968, la cui sagoma taglia verticalmente lo spazio della tela definendone le partizioni volumetriche è una immagine icastica e nello stesso tempo profondamente commossa. Emerge da un magma materico di fondo in cui cominciano ad organizzarsi le forme vaganti – come di un Arp dalla sensibilità più dilatata – che sembrano staccarsi anche dal tronco bituminoso di un altro dipinto con Albero dello stesso anno, per poi liberarsi nel canto atmosferico dei Momenti di natura. Un canto che si ripete, con l’accentuazione del bagliore cromatico di fondo, in Terra del Friuli dello stesso anno e Dialettica di una dimensione in cui la materia si disperde in luce e in atmosfera, ad eccezione di certi residui grumosi che resistono all’interno del vortice cosmico. Eppure, proprio nello stesso momento in cui dipinge le sue opere di più indefinibile confine, l’artista compone quadri serrati, ove ogni tensione è ricondotta entro il limite costruttivo che determina l’immagine. Così ancora del 1969 sono le sintesi bloccate di Terra del Friuli: dialettica uomo–natura e Tramonto, ove la fascia centrale si costruisce sullo sfondo, nel limite di bagliori solari, che recano essi stessi ombra e peso di terra. Più evidente è questa dialettica fra ricercata centralità dell’immagine e la tensione al suo frantumarsi in luce se si considerano i Momenti solari ove la materia è essa stessa forma dello spazio, momentanea concrezione cromatica sempre in procinto di mutare stato. Si mettano a confronto queste tele con le opere dello stesso titolo ove l’immagine in vortice è imprigionata nel limite del circolo o giunge a placarsi fino a diventare segno puro, memoria plastica, vertigine fiammeggiante anche nel monocromato per uno sconvolgimento consumatosi ab aeterno nella dimensione dello spazio–materia. Sono, questi, fra i dipinti più assoluti di Lucatello, immagini senza tempo e senza luogo possibile, ma di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Forme dello spaesamento poetico.
Non sarò io a negare il legame strettissimo che Renzo Viezzi con linguaggio che rievoca e poeticamente riflette cose viste e sentite in consonanza nelle opere di Lucatello e nelle ombre, nelle luci, nei colori della memoria friulana istituisce fra molti di questi dipinti e situazioni concrete dei giorni, delle stagioni, degli umori del pittore che si trova a lavorare di fronte, anzi dentro al mito della natura. Ma proprio perché ciò è stato scritto con tanta limpidezza da chi ha potuto seguire da vicino l’artista al lavoro e tenendo conto del fatto che questa stessa mostra ripete l’omaggio di Lucatello al Friuli e alle sue magie, mi sarà consentito di raccogliere, dallo scritto di Viezzi, la preziosa indicazione che lo studioso ci dà riferendosi ai già ricordati dipinti sul tema dell’Albero. Si trascorre fatalmente dal particolare al generale, dal realismo all’astrazione lirica proprio perché, scrive Viezzi, nei dipinti di Lucatello in questo momento (ma già prima il processo era avvertibile) "sta montando un presagio di struttura portante, una organicità d’emozione che empirà la tela di un cielo più grande e di lì a poco si farà essa stessa natura". Ebbene, se per natura di Lucatello si intende questo dare organicità, evidentemente formale, all’emozione, anzi questo processo di strutturazione si identifica con la natura stessa, ecco che il cielo più grande viene a coincidere col finito senza luoghi e senza confini dell’arte. Per cui ha veramente ragione Viezzi quando scrive che “Lucatello consuma il Friuli”. Anche Bruno Rosada, del resto, nella sua bella analisi della vicenda pittorica e umana di Lucatello, pur restando fermo al concetto che il periodo friulano ha una sua determinante diversità rispetto a quelli precedenti, legge come una costante prevalente nell’artista “la ricerca formale, vissuta in una dimensione sperimentale”. Io credo che questa componente vi sia sempre stata nel pittore veneziano, anche quando il formalismo poteva in qualche misura apparire colpevole ad un artista sinceramente impegnato nella battaglia sociale e politica. Ma si sa che non è necessario in arte che l’artista abbia coscienza critica, razionale, delle motivazioni che lo muovono perché queste motivazioni emergano nell’opera. Mi permetto di porre in dubbio l’opinione di Rosada che fa scaturire da “esigenze rappresentative e allusive” maturate da Lucatello nel rapporto con la terra friulana e in particolare con i luoghi del Tagliamento, quelle esigenze di natura formale che solo ora, scrive il critico, “cominciano ad affacciarsi nella pittura di Lucatello”. Parrebbe esser maturato soltanto ora ciò che Lucatello deve invece aver saputo e sentito da sempre e cioè, sono ancora parole di Bruno Rosada, "la convinzione che attraverso la composizione può passare il messaggio, che l’analisi della materia può concretarsi anche attraverso un discorso di organizzazione della forma". Se non fosse per la necessità di chiarire che Lucatello è realista o naturalista solo in quanto nel suo lavoro forma e realtà, natura e metafora simbolica sono indistinguibili fin dall’inizio, non vi sarebbe molto da aggiungere alle analisi pubblicate in occasione della mostra del marzo–aprile 1986 alla Bevilacqua La Masa da Giselda Lucatello, Bruno Rosada e Renzo Viezzi. Lucatello, come tutti gli artisti veri, ha in sè la propria dimensione, i propri luoghi, il proprio spazio. Sono questi fantasmi a prender forma, e attraverso la forma a divenir concreta realtà come cose della pittura che (la tesi è antichissima) si aggiungono a quelle di natura come una nuova esistenza e una nuova essenza e vengono a completare il mondo delle nostre sensazioni e delle nostre visioni.
Quindi non realismo, se questo è inteso in termini di tendenza; non astrattismo se con ciò s’intende mera esercitazione estetica che pretenda prescindere dall’infinito aggregarsi e disgregarsi di ciò che chiamiamo evidentemente per qualche ragione “materia”.
Lucatello ci rivela dimensioni nuove, cosmiche e terrene, del nostro essere e del nostro esistere e il vorticar della luce in un sole abbacinato, il suo distendersi senza limiti nella visione di un campo di grano o l’incupirsi d’una zolla nerissima non sono che metafore dell’eterno mistero che i rituali dell’arte ci rivelano senza dissipare le ombre dell’enigma che tutti ci avvolge. Quando Lucatello intitola uno dei suoi dipinti più inquietanti e impenetrabili Terra: rapporto uomo–natura sembra voler dare immagine il più possibile semplice, fisica, della sostanza di un rapporto dialettico che si mantiene vivo solo in quanto non può irrigidirsi nella risoluzione di uno dei due termini nell’altro, non può oggettivarsi se non attraverso quel processo di soggettività dispiegata che è l’opera di poesia. Così i dipinti di Albino Lucatello, queste grandi parabole dell’immaginario che soltanto con l’immaginazione possiamo penetrare e che sono in realtà impercorribili quanto i sogni o le vie della memoria, restano soprattutto testimonianze tangibili di una impossibilità. Essi si rivelano una contraddizione in atto se si tenta di darne spiegazione razionalistica e non ci si avvicina alla loro realtà, alla loro natura con lo stesso animo e la stessa umiltà che ci prende quando siamo assorti in contemplazione di qualcosa d’ineffabile. Nonostante tutti i tentativi di decodificazione, che possono essere condotti anche sui quadri di Lucatello, ciò che nell’opera resiste è l’aura, sempre che l’artista sia riuscito a crearla a difesa e come a sostanza segreta della propria immagine. Non c’è bisogno di esser formalisti per accorgersi di un fatto sul quale si fonda e per il quale solo si spiega la irrepetibilità dell’opera d’arte anche nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Ebbene Lucatello costruisce appunto quadri che sono concretizzazioni dell’aura, di quel senso indefinibile che avvolge le cose e le rende verissime ed irreali insieme. E anche “adorabili”, se a questo termine si dà il significato che può suggerire quel sentimento di laica religiosità che l’artista esprime e che lo spettatore avverte di fronte all’opera di poesia. Come per tutte le immagini investite dalla religiosità, si può ipotizzare anche per quelle di Albino Lucatello una traduzione in simboli convenzionali, una parafrasi in termini di linguaggio. Così, dopo i chiarimenti e le avvertenze di cui ho cercato di dire nella prima parte di questo scritto, si potrà anche ritornare a vedere come elementi costitutivi, essenziali ma non determinanti dell’opera, i greti del Tagliamento, gli alberi, gli sterpi, le forre, il fango, il legno annerito, le concrezioni materiche, i cieli, le albe e le notti del Friuli, ma trasfigurati in un processo di sublimazione che è evidentissimo nei Musi, ove è la materia ad essere negata, a dissolversi in pura luce.
A questo punto sarà forse opportuno chiarire in quale chiave vada letto il naturalismo, o l’ultimo naturalismo, di Lucatello e in cosa esso differisca da quello di Padania, terragno e corposo almeno nella intuizione prima dei maestri, da Morlotti a Moreni. Ciò che nella tradizione lombarda è fondante peso di materia e sentore di natura che negli emiliani si trasforma in sapore di zolla tumida ed aspra, in questo pittore veneto si concretizza e insieme si smaterializza in luce, in atmosfera.
La grande lezione degli antichi e quella moderna di Virgilio Guidi, un artista che Lucatello ha evidentemente amato molto e che ha profondamente compreso, specie nel momento delle esperienze dei “bianchi su bianco” e delle grandi composizioni sul tema degli alberi ci appare profondamente assimilata nelle opere del 1969, ma diventa elemento impossibile da disconoscere quando si osservino i Paesaggi degli anni Ottanta in cui cantano azzurri straniti, verdi di trasparenza squisita, gialli solari come quelli dei Campi di grano dell’ultimo periodo di lavoro dell’artista. A questo punto Lucatello ha compiuto il suo viaggio attraverso l’arte contemporanea, ha assimilato ciò che poteva assimilare dai grandi, da Picasso a Rothko, a Wols a Tàpies a Fautrier, fino ad Hartung con il quale spartisce la straordinaria capacità di far colore col nero: da tutti quelli, insomma, che egli poteva sentire come congeneri. Chi può contestare il valore illuminante di una ricerca di riferimenti, di assonanze, di connessioni fra l’opera di Albino Lucatello e quella dei maestri ai quali, per esplicita testimonianza dei critici che gli furono vicini, e delle opere stesse, l’artista si senti per molti versi legato? Come non pensare, per esempio, che i fantastici mondi di Klee si siano venuti nelle sue tele dilatando fino a farsi, come in Wols, esplorazioni di segrete regioni dell’animo umano.
O che il vuoto, il tutto bianco di Tapies non abbia trovato il suo contraltare, fuori cioè dalla provocazione nichilistica, nelle grandi superfici ove Lucatello impasta e fa esplodere la materia–segno? Ed ecco, proprio per questa apprensione totale, cosmica dell’essere, Lucatello può anche negare all’opera ogni storicità, ogni riduzione al quotidiano. Come Rothko. Nello stesso tempo nelle sue opere si esalta l’energia pura del gesto che si fa segno ed espressione, come in Hartung o s’ammala nella angoscia, nel pathos embrionale della ma-teria di Fautrier. Altre connessioni potrebbero essere trovate, lo dicevo all’inizio.
L’opera di Lucatello è infatti un’opera “in dialogo” con tutte le immagini – estetiche e non estetiche – che s’affollano nel caleidoscopio del visionario sociale ed è questo che là rende così ricca di implicazioni, di sottintesi, di verità palesi e suggerite. Si può sprofondare nell’enigma dei suoi neri, dei suoi verdi; delle sue luminosità saturnine che promanano dai recessi profondi della materia–pittura; ci si può sentire investiti, al contrario, dalle solari rivelazioni dei gialli e dei rossi fermati in improvvisa vertigine sulla tela, quasi che Lucatello fosse riuscito a riportar calore di vita agli antichi soli morti della metafisica mediterranea; Si può rileggere l’enfatizzazione spaziale del segno primario di Capogrossi (o ancora di Hartung?) nelle sintesi stupende degli Ostacoli. Infinite altre connessioni reca in sè la pittura di questo artista moderno e antico insieme, per il quale potrebbe avere senso singolare l’affermazione di Valery che “il più profondo è la pelle”. Le tessiture lievi di superficie sono infatti in Lucatello tramite di misteriosi messaggi provenienti da un profondo che è in noi e che diviene, nell’arte, superficie: segno e vibrazione in atto, metafora di un enigma.
Si può forse affermare che all’aprirsi degli anni Settanta Albino Lucatello aveva già creato la propria, irripetibile immagine. Tutte le opere che da quel momento seguiranno non dovranno essere considerate altrimenti che la prosecuzione, spesso serena e felice, come accade nei dipinti di Fiori o in certe fantasmagorie degli appunti d’aprés nature, di una ricerca che anche nei momenti d’angoscia più cupa resta caratterizzata da un atteggiamento fidente, straordinariamente creativo. Si tratta di uno dei rarissimi casi in cui un artista si può dire abbia espresso il suo modo di essere e di patire la sua singolare verità esistenziale non avvalendosi della pittura, ma vivendola.
Per questo non sentiamo gli Ostacoli, i Greti, i Momenti di natura, i Gelsi, i Soli, i Fiori soltanto come frutto di un modo di vedere, di una riflessione emotiva e teorica sulle cose. Essi sono quelle cose e noi possiamo per la loro valenza artistica averne nozione diretta. Quando Giselda Lucatello scrive che nei quadri dipinti dopo la tragedia del terremoto che colpì il Friuli il pittore volle riaffermare la gioia della vita, intende probabilmente dire che il dipingere e il vivere erano per Lucatello la medesima cosa e non meraviglia la bramosia con cui, negli anni ultimissimi, egli cerca nelle tele spazi sempre più ampi e nella natura visioni sempre più dilatate dalla luce, segreta energia della materia davvero vivente e infinita.
Quando si ha coscienza dell’infinito è più facile comprendere ciò che dell’infinità partecipa in quanto cosa, oggetto, paesaggio, situazione, persona. Albino Lucatello, sempre fisso più alla sua realtà che non a quella rappresentata nel linguaggio irrigidito in moduli stilistici, può anche ritrovare le forme antiche del “popolare” per comprendere la tragedia del terremoto, più che per descriverla. Per la stessa ragione i “ritorni” di Lucatello, specie quelli stilistici, non sono che modi di un atteggiamento univoco che continuamente si conferma attraverso l’immagine del movimento e della diversità.
Vorrei che quella di Lucatello fosse considerata sì un’arte che, come gli uomini, "nasce ad ogni istante" perché esiste da sempre e per sempre. Il discorso della durata dell’opera, se lo si conduce al di fuori delle strettoie del sociologismo corrente, si regge infatti nella presunzione di una infinità in cui ciò che chiamiamo tempo è energia che scorre da se stessa a se stessa.
Di essa possiamo dare immagine estetica, astratta e metafisica, o immagine dinamica altrettanto sublimata. Lucatello è metafisico anche quando la materialità pittorica prende toni volutamente insistiti e i frammenti di “natura trovata” (i sassolini dei greti) assumono la funzione di parti costitutive della “natura inventata” che dell’arte è propria. Religiosità e misticismo possono ben riconoscersi in questo atteggiamento d’apprensione totalizzante e che la cosa non sia illegittima lo dimostra il fatto che in anni lontani Diego Valeri, presentando le opere di Lucatello, ne abbia proprio sottolineato il senso mistico e la sospensione in “una attesa forse inconsciamente religiosa”. Ciò è tanto più verificabile quanto più il pittore si misura con la materia, la cerca e la trasforma in energia estetica, in qualcosa, cioè, di eminentemente spirituale. Licio Damiani, in occasione di una personale tenuta da Lucatello a Udine nel 1967, aveva già sinteticamente riassunto quel che io mi limito a riaffermare in questa occasione. Scriveva di "un impegnativo, faticoso lavoro di purificazione della materia, per renderla il più possibile limpida e universalizzata", per sottrarla cioè al peso di quella natura di cui Lucatello cerca l’essenza prima, l’anima incombusta fra le ceneri e i bagliori del presente. Naturalmente sottolineare ciò che vi può essere di spiritualistico nell’opera di Lucatello può sottintendere la convinzione — che in me in verità è fortissima — che egli sia stato persona non priva di qualche vocazione all’ascetismo, se a questa parola si dà il significato suggerito dal vecchio Tommaseo il quale diceva che essa si conveniva al monaco come all’atleta.
Perché non potrebbero dirsi frutto di una tensione all’ineffabile quei Soli che un altro pittore di lunga frequenza veneziana, Bruno Saetti, pose a simbolo di una, possibile metafisica del quotidiano e di una ricerca d’ascesi forse impossibile, ma necessaria nel momento della degradazione d’ogni cosa e pensiero ad oggetto? Ho avuto lunga consuetudine con il pittore bolognese che cercava nelle luci d’acqua di Venezia qualcosa che sapesse resistere alla dissoluzione, resistere anche come materia. Ho avuto la fortuna di frequentare per molti anni e di lavorare con un altro maestro, Virgilio Guidi, per il quale se natura e spirito potevano coincidere, naturalismo e spiritualismo erano parole prive di senso. Non credo di tradire la memoria dei due grandi pittori scomparsi; così diversi e pur così vicini nell’essere entrambi artisti d’autentica elezione, con l’affermare che essi furono ascetici in quanto videro nella natura la spiritualità stessa e cercarono di adeguarla con l’arte, attraverso il “veder visionario” che partecipa sempre un poco della sacralità o di ciò che vogliamo intendere con questa parola. Non diversamente vide la natura Giorgio Morandi, il pittore dell’umile Appennino bolognese, delle piccole, banali cose del quotidiano: colte nella loro concretezza e nel contempo sentite come partecipi dell’universalità dalla dimensione metafisica. Il "faticoso lavoro di purificazione della materia per renderla il più possibile limpida e universalizzata" di cui scrisse Damiani nel testo su Lucatello che ho prima ricordato, non è diverso nell’impegno da quello che mosse, magari partendo da premesse del tutto diverse, i maestri del tono e della luce dai quali la nostra cultura, dico la cultura della vecchia Europa, non può prescindere. Non voglio con questo dire che Lucatello, così pronto a gettarsi nel vortice del gesto creativo, sia o possa definirsi pittore morandiano. Dico soltanto quel che ho ripetuto molte volte a proposito del maestro bolognese e cioè che esiste una “condizione Morandi” ineludibile per chi senta l’urgere di istanze metafisiche nel gran mare del quotidiano e per chi sappia intendere la realtà come luogo di valori che per essere profondamente umani trascendono ed insieme esaltano l’individuo, la sua profonda, mistica terrestrità. L’arte non ha mai dato altra immagine che questa ed è, lo ripeto ancora, immagine sublimata quanto più narra dell’uomo vero, delle cose di natura grevi e corpose: gli sterpi e i sassi del Tagliamento, le pietre tormentate di Venezia, la terra povera di Grizzana o del Friuli, le nere meteoriti rovinate dagli spazi. Lucatello ha però portato al color bianco, rendendola rovente e infuocata, una immagine di natura che non avrebbe sfigurato fra le più alte dello spazialismo del quale imprende un processo di depurazione alchemica giungendo a rispondere, con i Momenti solari, al più insinuante e sottile Lucio Fontana, così come in certe composizioni in cui l’assunto è la Dialettica uomo–natura finisce per toccare i toni dell’angoscia che il Fautrier degli Ostaggi aveva rivelato all’arte europea. Ma se al confronto di Fontana Lucatello rivela meno propensione per l’eleganza compositiva e per il distacco formale intesi come fine di un’arte disinteressata fino all’autonegazione (che puntualmente verrà poi teorizzata nei modi della morte dell’arte e della pittura di pennello), rispetto a Fautrier rimane in lui vivo il senso gioioso dell’essere, magari umiliato e sconfitto. Il vitalismo insopprimibile lo colloca in un ambito di cultura a cui appartiene, per esempio, Mattia Moreni con le sue creazioni luciferine e il Burri delle combustioni più drammatiche. Ritorniamo cioè all’area dell’Ultimo naturalismo di Arcangeli, che teorizzava la natura come pulsione negandola come immagine di un conoscibile finito.
I Momenti di natura dipinti da Lucatello prima di giungere alla ferma sintesi degli Ostacoli, sembrano trovar ragioni in quella poetica che nella estensione totale di Francesco Arcangeli comprende anche Pollock.
È significativo che gli Ostacoli precedano di pochissimo e si accompagnino con altri Momenti di natura non meno fortemente strutturati, per giungere ai quali non deve essere stata di poca importanza per Lucatello una documentabile esperienza di rilettura di Picasso approdata alle fantasie di certi Notturni. Qui si tende e cerca spazio l’immagine erotica che anticipa il periodo felice dei Fiori, dei Gelsi, delle nuove Dimensioni uomo–natura composti sul finire degli anni Settanta. Non riesco a vedere negli Ostacoli quel senso del dramma che altri hanno sottolineato, né mi interessa molto la valenza simbolica che queste composizioni impeccabili possono aver avuto per Lucatello. Certo è che poche volte artista si è rivelato più sicuro nel creare la propria immagine come un assoluto formale ove se c’è dramma è dramma concluso, tutto interno all’opera che s’erge in una classicità superba. Vi sono, è vero, Ostacoli ove la tensione è portata allo scoperto, dichiarata, e toni funerei, di buio temporale, incombono come una dannazione. Ma io ritengo che Lucatello sia più autenticamente se stesso quando dimostra di saper dominare i tumulti propri e quelli dell’immagine, quando cioè raggiunge quella misura di clas-sicismo che è il naturale sbocco dell’ascesi estetica ed artistica. Ebbene ciò avviene proprio con quelle composizioni che sembrano erette da Lucatello come Ostacoli contro le vocazioni al “disordine” che si riaffacciano dopo la tragedia del terremoto del 1976.
Non vorrei sopravalutare i dati della biografia dell’artista, ma a me sembra sintomatico che a quello che ho definito il momento di più deciso classicismo di Lucatello, il periodo degli Ostacoli, corrisponda la disponibilità dei grandi spazi dello studio di Vendoglio e il primo, consapevole convincimento di una raggiunta serenità. Convincimento che il terremoto verrà crudelmente a infrangere. Lucatello dovrà allora ripercorrere le fasi dell’antica passione, in negativo e in positivo, alternando l’affondo nei grumi nerissimi della materia alle illuminazioni e agli aperti entusiasmi pittorici delle visioni di natura e dei Fiori più splendenti, delle sinfonie di verde, dei gialli abbacinati dei Campi di grano. Ma si veda in quale misura spaziale sono tenute ora le immagini, anche quelle di maggior sensualità organica come Natura del Friuli del 1978 e l’icastico dipinto Dialettica uomo–natura dello stesso anno, di proprietà della Galleria d’Arte moderna di Udine e che qui viene riproposto. La misura è quella degli Ostacoli più fortemente strutturati e lo spazio, in cui l’immagine più che collocarsi si crea determinandosi e determinando l’immagine totale del quadro, è lo spazio classico della tradizione mediterranea in cui si ripetono le presenze rituali del nero e dei bianchi impastati in immemorabili calcine. L’esperienza dei Musi tenderà a ritrovare nuova vita e nuove vibrazioni di senso anche oltre questa raggiunta misura di classicità e, obbedendo al consueto intento dialettico che impone a Lucatello di non irrigidire mai l’opera su uno schema linguistico raggiunto, ma di rimettersi sempre in discussione, l’artista infrange le solide sbarre degli Ostacoli raccogliendone i luccicanti frantumi nello impalpabile sfolgorio atmosferico e cromatico dei Musi ove vibra il sapore di roccia, di terra e di soli inquinati. A questo punto io non ritengo fosse ingiustificata la preoccupazione espressa da Berto Morucchio nel testo di apertura di una pubblicazione monografica su Lucatello edita dalla Galleria d’arte Venezia. Dopo un’analisi finissima della vicenda del pittore, dagli esordi fino a quelle opere che giustamente gli ricordano “i monocromi di Fontana e di Yves Klein” ma con più peso e senso di natura, Morucchio cerca di togliere l’idea che l’artista tradisca questo suo amore per il concreto “invitandoci in un eliso delle essenze”: il che è proprio ciò che Lucatello in quel momento sta facendo col rendere sempre più essenziale quella pittura che egli sente come natura pura, ma ricomposta in un atto estremo d’amore fisico: lo stesso che lo porta, ricorda la moglie Giselda, ad accartocciare le tele “per sentirne il palpito sotto il colore”.
Al termine della sua stagione Lucatello sente insomma il bisogno di una dimensione totale, in cui tutto possa essere espresso. I Musi, testimonia ancora la sua compagna, sono per Lucatello il "grande progetto dove ancora una volta racchiude il tutto della sua pittura": un progetto classico, teso all’universalità metafisica, al silenzio antico e meraviglioso della pittura–pittura.
 

Dal Catalogo della mostra alla Galleria d’Arte Moderna di Udine, 14 maggio / 31 luglio 1988

Franco Solmi

 

 


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