Chiolo, 1975
Rassegna stampa
   
Per molta gente capire gli altri è un assillo. Per chi tenta di fare il critico, capire diventa un dovere.
Ogni tanto una simpatica amica pittrice si chiede: “Ma a che serve la critica?” È un gentile eufemismo, per dire che i critici non capiscono niente. Non è facile rispondere a una tale osservazione, perché bisogna ammettere che capire gli altri non è facile; anzi, è molto difficile se questi altri sono sopra tutto dei pittori.
Uno scrittore usa un linguaggio ormai reso convenzionale, cioè usa parole sul cui senso c’è un minimo di certezza; e, se ci sono dei dubbi, si può sempre ricorrere a un vocabolario sia della lingua scritta sia di quella parlata. Ma dinanzi a un quadro di un pittore che dilata grandi macchie di colore pastoso, massa grumosa di nero, che si fa? A quale dizionario si ricorre?
Qui, naturalmente, si tenta di dialogare con qualcuno fornito di un minimo di onestà mentale: cioè con un artista o con un amatore d’arte qualsiasi, abituati a non ingannare né gli altri né se stessi. C’è chi tenta di ingannare solo gli altri, e sono quegli artisti che parlano sempre male dei colleghi, perché l’arte vera la fanno soltanto loro. Costoro danno dell’incompetente a tutti i critici, perché, è chiaro, capiscono solo loro. Molti di questi sono però in malafede, perché sanno che il problema dell’arte è complesso e, nella sostanza, inesplicabile.
Poi ci sono quelli che ingannano se stessi prima degli altri. In genere questi sono i giovani pittori, i quali sono convinti di essere depositari di un messaggio divino: sii benedetto, perché a te confido il segreto dell’arte. E ci credono. Bisogna aver pietà di loro, perché soffrono veramente nel constatare che gli altri non capiscono che sono loro gli unici a capire. Questi li lasciamo da parte. Hanno tutta la nostra affettuosa comprensione.
Infine ci sono quelli che riconoscono la difficoltà e la complessità del problema. Questi partono da una posizione di onestà mentale: l’arte, nella sua essenza, è indefinibile, insondabile, inconoscibile. Ma allora perché tutto questo parlare d’arte? Non c’è contraddizione. Pure la vita, nella sua essenza, non è una cosa facile, ma ciò non impedisce che da millenni il cervello umano si affanni a capirla, a darle un senso, a scioglierne i perché. L’importante è vivere, sapendo di vivere con un senso, non importa quale.
Ora, questo preambolo, un po’ lungo in verità, serve per introdurre il discorso su Albino Lucatello, un pittore da collezionisti, perché difficile da capirsi. Come mai allora c’è gente che fa collezione dei quadri di Lucatello? Abbiamo conosciuto due suoi collezionisti, in casa dei quali abbiamo visto tanti quadri di Lucatello in soggiorno. “In questa stanza io passo la maggior parte delle mie ore libere”, ci ha detto. Cioè in mezzo a tanti quadri di Lucatello.
Una parete della stanza è occupata da un solo quadro di Lucatello, composto da una distesa di giallo, al cui centro si genera una proliferazione di svirgolature più o meno sottili, più o meno grumose. Diciamo subito che il quadro esercita un fascino sul visitatore. C’è chi dice apertamente: il quadro è bello.
Diamo come scontata questa emozione estetica. Passiamo alla domanda inevitabile di coloro che chiedono: “Ma che cosa significa?”. A questo punto entrano in lizza quelli che capiscono tutto e quelli che si rifiutano di capire.
Ai primi si può dire con dolcezza che mentono per la gola, perché in quel quadro e in molti altri quadri di Lucatello non c’è un “significato” per la semplice ragione che non è nell’intenzione dell’artista veicolare “significati” o “sensi”. Il suo operare si muove fra i moduli della ricerca estetica e la ricostruzione “sintomatica” di emozioni. Spesso queste emozioni partono da appunti di sensazioni dinanzi al paesaggio friulano, risolto attraverso macchie di verde e di nero.
Come si fa a capire che questi quadri sono legati al Friuli? Non si capisce e non si può capire dai quadri. Quelle macchie di verde e di nero, in quanto segni capaci di trasmettere sensazioni, emozioni, suggestioni, pensieri, non hanno un senso univoco, perché sono per loro natura “polisensi”, cioè possono voler dire molte cose. Come si stabilisce che veicolano questo e non un altro senso? Dal contesto, dal raffronto, dalla ricerca di analogie, attraverso le testimonianze o le confessioni dell’artista, ma in sé e per sé quella macchia verde non significa il paesaggio friulano, né può significarlo in quanto macchia “neutra”, priva di connotazioni iconograficamente precise.
E allora tutti i discorsi di coloro che capiscono tutto sono menzogne di semi–analfabeti. Le persone con un minimo (con i tempi che corrono) di serietà non dicono di capire gli eventuali significati di quei quadri, ma parlano d’intense emozioni pittoriche che si sprigionano da quelle tele sulle quali i colori non sono posati a caso ma accostati, messi in contrasto, ravvicinati, in modo da creare di volta in volta una struttura emotiva, con una sua intima armonia, spesso in opposizione a certi schemi della pittura tradizionale.
Sono dunque i quadri di Lucatello delle opere aperte dove ognuno — a seconda che ami o rifiuti questo genere di pittura — può trovare le emozioni intense di ricerca pittorica condotta sul filo della libertà inventiva, ma rigorosamente controllata nel suo farsi: Per gli altri, per quelli del rifiuto, questi quadri restano incomprensibili, e non li sfiora il sospetto che un’opera può essere incomprensibile alla mente, ma essere chiarissima alla sensibilità. Naturalmente, per gente mentalmente onesta, senza pregiudizi e prevenzioni, cioè per persone che si fanno sempre più rare nonostante il dilatarsi degli orizzonti scientifici.
 

dal “Messaggero Veneto” del 18 agosto 1975

Una ricerca sul filo della libertà inventiva
LE EMOZIONI DI LUCATELLO

di Salvatore Chiolo

 

 


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