Rizzi, 1986
Rassegna stampa
   
VENEZIA — Albino Lucatello (1927-1984): un veneziano trapiantato in Friuli.
Lucatello era un uomo mite, ma un pittore di polso energico. La sua partenza, negli anni fervidi del dopoguerra , è stata in direzione realista, come del resto altri giovani della sua generazione gravitanti allora attorno alla Bevilacqua La Masa. Disegni secchi, scattanti, d’una risentita crudezza. Verso la metà degli anni Cinquanta dipinge con turgore espressionistico: grandi sciabolate di colore, che rendono i vettori di forza di un paesaggio visto dall’alto. Tra il 1958 e il 1959 la svolta: il colore si raggruma, si partisce tra il nero profondo e un unico tono (rosso o giallo). La grande lezione europea dell’informale è vicina (Burri, Tapies, Fontana, Appel). Ma Lucatello non perde il contatto con la natura: i suoi restano sempre paesaggi, sintesi di paesaggi. C’è in essa una cupezza espressiva, un taglio lancinante, un senso di terra amara. Il nero urla la sua violenza.
Poi, dal 1961, Lucatello lascia Venezia e si trasferisce in Friuli. A Tarcento. Ecco che la pittura abbandona anche la linea d’orizzonte (come nel dipinto accanto al titolo) e si libera d’ogni impaccio naturalistico: diventa pura luce, puro colore. Resta però sempre un succo profondo, un profumo, un’essenza. Lucatello non è un edonista. Il suo informale permane ancorato alla matrice spazialista di altri artisti veneziani a lui vicini (Bacci, Gaspari, lo stesso Tancredi). C’è un’estrema libertà, innervata da una allusività disperata, persin patetica. Lucatello si rivela cioè un sentimentale, un emotivo. E così, con esiti alterni ma mai banali, egli prosegue sino alla morte improvvisa, confermandosi pittore autentico, senza infingimenti, anche laddove sfiora il manierismo.
 

da “Il Gazzettino”,
1 aprile 1986

UN VENEZIANO IN FRIULI

di Paolo Rizzi

 

 


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