Batacchi, 1986
Rassegna stampa
   
Fino al 13 aprile (orario 9.30–20, martedì chiuso), la Galleria della Fondazione Bevilacqua La Masa presenta una bella retrospettiva dedicata all’opera pittorica di Albino Lucatello.
La mostra parte da alcuni disegni (ritratti di un forte impatto, realizzati dal 1949 al 1955) che dimostrano la base accademica dell'artista e la sua iniziale adesione al realismo socialista. Subito dopo, sulla scia delle polemiche che per anni seguirono la costituzione del Fronte Nuovo delle Arti e la spaccatura — tra militanti comunisti — nei due spezzoni del realismo e dell’informale, Lucatello sceglie d'istinto l’indirizzo liberatorio e comincia a scaricare sulla tela le sue forti pulsioni, prendendo a pretesto elementi di paesaggio urbano. (Tetti di Venezia, Orti a Portosecco) dapprima strutturati in residui reticoli grafici alla Gambino, in seguito più gestuali e materici.
Da questo momento — siamo nel 1958 — l’opera di Lucatello è tutta tesa a restituire il rapporto tra spazio e materia, all’equilibrio naturale. Appaiono talvolta frammenti figurativi (le Teiere, i Delta), tuttavia risultano costantemente minacciati, assorbiti dal magma cromatico che invade la superficie del dipinto stabilendo nuovi, miracolosi equilibri di forte tensione emotiva tra zone aggettanti e fondi piani, come in altorilievi plastici: l’eco di Burri e di Bill Condon è chiara, ma non prevalente. È questo, fino al 1962, il periodo migliore: le sue opere varcano l'oceano, sembra destinato a spiccare il grande salto di qualità. Ma, improvvisamente, viene circondato da silenzi, in parte dovuti alla sua militanza politica in parte a invidia e al clima di restaurazione che comincia a serpeggiare nell'ufficialità culturale e nella pubblicistica veneziana.
Lucatello scappa in Friuli, dove la sua pittura inopinatamente cambia: l’uso del diluente tempera i forti cromatismi in effetti d’acquerello (Paesaggi di Buja). C’è un qualche intenso ritorno alla gestualità (i Tagliamenti, gli alberi), ma si registra anche una maggior propensione a guardare altrove, a farsi influenzare contemporaneamente dal “tachisme”, dall'astrattismo lirico, dall'accumulazione cromatica e ancora da Burri (1969).
Bisogna chiudere la lunga parentesi dell’avventura materia–colore: alla fine del vicolo c'è la tela intatta o riempita di blu di Klein.
Lucatello allora trova un grande studio in campagna e trasferisce i suoi Ostacoli (strutture segniche) su enormi tele. Sembra l’avvio di un nuovo, importante paragrafo: ma il terremoto del ’76 spazza via tutto ed è l’inizio di una lunga, nobile discesa verso la fine. Ricominciano le influenze (Picasso per i notturni e Licata per Uomo natura del ’78), la gestualità si fa sempre più trasognata (Sole, Gelsi) con brevi ritorni di forte intensità (le opere a soggetto sessuale), fino al placido approdo lirico dei Campi di Grano, dei paesaggi friulani (i “Musi”) adottati a manifesto della mostra, una scelta infelice perché quell'opera struggente è la dimostrazione della resa di Lucatello: c'è ormai solo il ricordo del gesto forte, materia e colore — i suoi Numi — sono domati e sconfitti).
Non sono d’accordo con quanto afferma Giselda Lucatello nella biografia, pubblicata nello splendido catalogo: secondo me, quando Albino scompare, nell’autunno del 1984, non è vero che “il suo era un discorso per nulla concluso”. Così come non condivido l’affermazione di Bruno Rosada — autore del saggio critico — secondo cui Lucatello appartiene a un milieu locale, più che all’astrattismo europeo: per il periodo “d’oro” sopra indicato è vero il contrario. E, tanto per gradire, trovo fuorviante la conclusione di Renzo Viezzi sul tema del rapporto Uomo-Natura: “Lucatello pittore veneziano amò con forza e subito le verdi terre friulane…”.
No: Lucatello subì l’esilio nelle verdi terre friulane, perché Venezia non l’aveva meritato.
 

da “La Nuova Venezia”, marzo 1986

Alla Bevilacqua La Masa una retrospettiva dell’artista

LUCATELLO L’ESILIATO

di Franco Batacchi

 

 


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