Terenzani, 1980
Rassegna stampa
   
“Bizzarro, pittore un po’ matto, forse strano, polemico certo e non cortese, out” è la definizione di Albino Lucatello in uno dei numerosi cataloghi che costellano il suo lungo “iter” artistico.
Due occhi grandi, curiosi, lento nei gesti e nelle parole, aggressivo e rabbioso nelle opere, veneziano ma acquisito friulano (da circa vent’anni in Regione), Lucatello è pittore da sempre, si imbeve di pittura e di colore anche se alterna questa sua preminente attività con quella di insegnante.
La sua dialettica, che non ha perso la dolcissima e pacata melodia veneziana, che si snoda senza freni inibitori, ne fa un ritratto preciso e oggettivo dal quale emerge un personaggio “sui generis”, contrastato, proprio un po’ matto come riferisce il catalogo. Lui, l’Albino, è la sua pittura, una pittura che è stata realista e astratta perché, sono parole dell’artista, “ho tratto dal cumulo delle esperienze del ’900 la convinzione che la forma può cancellare l’oggetto quando questo non serve o addirittura ostacola la trasposizione emozionale di un discorso; viceversa può recuperarlo in un momento diverso, per fare magari un discorso identico”. Lucatello mi ha colpito una sera, quando, ancora prima del terremoto, aveva lo studio a Vendoglio, studio ora ridotto a macerie. Enormi pareti erano occupate da enormi quadri, pieni di larghe e rabbiose pennellate e di grumi di colore apparentemente sprecato. Il legame con il colorismo veneziano era evidente, era l’aspetto più eclatante. Fu allora che mi venne in mente una domanda molto semplice e vera. Albino era del parere che l’artista capta le esigenze dei suoi simili.
Rimasi interdetta non riuscendo a intuire quali esigenze umane quelle opere, fatte di rabbiose strisce colorate, interpretassero.
Melodiosamente mi rispose che “un pittore non può mettersi a livello mentale delle masse ma che, al più, le masse devono essere educate alla comprensione, anche se l’arte è fatta per loro e per le loro necessità”.
E continuò “La mia arte non è comprensibile, perché non figurativa ma anche un Raffaello allora, se vogliamo andar per il sottile, è problematico e di difficile comprensione per i non addetti ai lavori. Ho cercato di andare oltre e sempre mi supero, perché voglio stare nei tempi, aver vitalità!”.
Non c’è dubbio che in Lucatello la vitalità c’è, o meglio, l’aggressività che contrasta con la chiusura dei suoi atteggiamenti e la lentezza delle sue parole. Anche a questo proposito illumina una sua frase “la chiusura è un fuggire la mischia, il non essere dentro in certe situazioni, i quadri invece no, sono la mia rabbia, la mia aggressività verso il mondo anche se spesso mi attacco alla natura per assorbire le gioie della vita, perché l’uomo è natura”.
Parole obiettive. Lucatello infatti si vede poco, poco intrallazza, vive oggi a Tarcento; ha dovuto ricostruirsi, dopo il terremoto, lo studio altrove, la sua vita e la concezione di essa non è cambiata negli anni: l’artista veneto–friulano è un uomo che vive attimi intensi e sofferti, un uomo in fondo carico di quella umanità e dignità umane come oggi raramente si trovano.
 

Albino Lucatello, in “Anni 80. Periodico di attualità, cultura e sport”, anno I – n. 1, Udine, maggio 1980.

Manuela Terenzani

 

 


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